Mi chiamo Stefania, ho 47 anni sono laureata in Psicologia e sono socia fondatrice di una società che vive di consulenza alle imprese e di selezione del personale e che è composta da 15 persone tra dipendenti e collaboratori.
Non vengo da una famiglia di imprenditori, ho deciso di aprire la mia attività spinta dal mio compagno di allora, attuale padre di mia figlia e amministratore a sua volta di questa società. “Puoi fare di più, puoi creare qualcosa di tuo, puoi esprimerti e misurarti col mercato, puoi dare sfogo alla tua voglia di meritocrazia, a quello che lo sport ti ha insegnato” mi diceva. Ho messo tutta me stessa in questa impresa. Ho anche raggiunto i miei limiti, li ho guardati in faccia e ho cercato collaboratori e soci che potessero portare in azienda ciò che io non potevo portare.

In questo momento straordinario mi confronto come tutti con una profonda sensazione di incertezza, condizione che però conosco bene perché da sempre ha accompagnato le mie scelte. Chi sceglie di essere (non di fare, ma di essere imprenditore) sa che l’incertezza è sempre presente e decide di fare impresa perché vede nell’incertezza la fonte delle possibilità che va cercando.

Si fa impresa per essere domani diversi da ciò che si è oggi.

E quindi, quale migliore momento di questo per un imprenditore? Sicuramente oggi siamo già diversi da ieri e quindi noi imprenditori, estremizzando, siamo, più di altri, vicini alla nostra comfort-zone e dobbiamo quindi dare il nostro contributo. È importante, in questo momento più che in altri, mettere a disposizione della comunità questo modo di essere e di pensare che si traduce nella capacità di incuriosirsi dell’ignoto, di essere stimolati alla creatività ed energici di fronte all’imprevisto.
Sono però obiettiva: dobbiamo distinguere prima di tutto chi è imprenditore da chi semplicemente sceglie di fare impresa. Questi ultimi si riconoscono perché cercano attraverso l’impresa una realizzazione di sé anziché cercare, attraverso di sé, la realizzazione dell’impresa. Per questo, non sanno ridisegnarsi quando il cambiamento in arrivo non pare positivo, favorevole, redditizio e luminoso come si aspettavano: al vacillare quindi dell’intrinseca motivazione, iniziano ad utilizzare la bilancia per capire se conviene o meno resistere. E, sempre per questo, non sono ciò che serve in questo momento.
Una volta individuati gli imprenditori che servono, quelli utili, questi dovrebbero essere chiamati a far parte dei tavoli dove si decidono le strategie per gestire questa situazione, non in quanto portatori di interessi di parte ma in quanto esseri umani con un preciso profilo attitudinale. Allora forse qualcuno chiederebbe a questa categoria di lavoratori: “Secondo voi cosa è possibile fare?”: io immagino che la risposta sarebbe che noi imprenditori non sappiamo come si può fare ad uscire da questa situazione, come tutti, non lo sappiamo proprio. Quello sul quale gli imprenditori possono dare una mano non è “sapere cosa fare” ma immaginare “cosa essere”. L’attitudine all’incerto di questa categoria di lavoratori è utile ad immaginare in maniera creativa come vivere ora questa situazione, come ridisegnare adesso un nuovo modo di lavorare.

Non ci sono molte alternative: le cose sono già diverse ora, la vita è quella che stiamo vivendo, non ci si può mettere in stand by perché sarebbe come frenare con i piedi un treno in corsa.

Inoltre, la testimonianza di chi sceglie l’incerto per mestiere, potrebbe parlare e toccare nel profondo tutti coloro che stanno ad aspettare che qualcuno risolva le cose per loro, per abitudine, per comodità oppure perché non credono nelle loro possibilità di aiutarsi da soli. Perché c’è un immenso bisogno che siano sempre di più le persone con questa nuova sensibilità, con questo profilo, per trovare soluzioni e immaginare di poter essere sereni e se possibile felici e attivi anche ora, nel momento del massimo cambiamento che abbiamo mai sperimentato.