Sarà stata la pandemia o il fenomeno della Great Resignation, si percepisce una forte carenza di personale in molti settori, primo fra tutti quello turistico, che alle porte della stagione estiva si è ritrovato con 70.000 professionisti in meno rispetto a quelli necessari per portare avanti le attività a pieno ritmo. Alcune realtà hanno dovuto persino rivedere i loro orari o i servizi per i clienti, a causa della mancanza di personale: è infatti di qualche settimana fa la notizia che Gardaland, il noto parco divertimenti, avrebbe chiuso prima le attrazioni per carenza di staff (emergenza successivamente rientrata).

A leggere i giornali, questa crisi sembra riguardare spesso ruoli molto operativi, come camerieri, baristi, braccianti agricoli, addetti alle attrazioni o agli stabilimenti balneari, lavori che possono essere svolti con una breve formazione, con livelli di scolarizzazione anche medio-bassi e per un periodo limitato come la stagione estiva. Per farla breve, mancano gli stagionali.

Mancano quindi moltissimi di quei ragazzi e ragazze che dedicavano la stagione estiva – che spesso coincide con una pausa dalla scuola o dall’università – a brevi lavori, per poter iniziare a mettere qualcosa da parte e porre le basi per una futura indipendenza economica.

Ma la mancanza di personale, derivante anche da una rapida inversione dei valori delle persone a cui non è corrisposto un adeguamento nello stile e nelle aspettative delle imprese, dovrebbe essere un’occasione non per colpevolizzare e generalizzare intere categorie professionali, ma un’opportunità per guardare alla propria azienda, analizzare il perchè del fenomeno che si sta vivendo, dare lustro ed evidenza ai valori fondanti, alla cultura, innovandosi e mostrando così quella flessibilità che spesso gli imprenditori ritengono un tratto distintivo della proposta di valore Made in Italy ma non dell’organizzazione del lavoro.

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Tuttavia, solo in pochi sembrano aver seguito questo ragionamento ed aver colto l’opportunità di miglioramento nella situazione di crisi. Molti – o forse pochi, ma che hanno generato un forte clamore mediatico – hanno risolto velocemente l’equazione che collega la mancanza di operatori stagionali alla scarsità di giovani propensi ad entrare nel mondo del lavoro. E da questa considerazione a puntare il dito contro la nuova generazione di giovani “svogliati”, il passo è stato breve.

La riflessione di una “giovane” Recruiter

Non so se, alle porte dei 30 anni, sono pienamente rappresentativa della generazione oggetto di tante discussioni in queste settimane, ma come Recruiter vivo su LinkedIn la maggior parte della mia giornata lavorativa e quotidianamente leggo discussioni su questo tema in cui, nel giro di un paio di commenti, si punta il dito contro intere generazioni di giovani, colpevoli di essere “svogliati”, “viziati” e “senza spirito di sacrificio”.

Fin qui, niente di nuovo. Correva l’anno 2012 quando l’allora Ministro del Welfare Elsa Fornero definiva i giovani italianichoosy”, scatenando un vespaio di polemiche. E dopo 10 anni, con un mondo radicalmente cambiato sotto i nostri piedi, sembra che tutto sia tornato al punto di partenza, a questi giovani “schizzinosi” che non accettano il lavoro che il mercato gli offre o che sono disposti a mollare tutto pur di investire su altre attività e su una migliore qualità di vita nel complesso, piuttosto che sulla carriera.

Proprio su questi aspetti le generazioni si dividono e forse solo ora iniziamo a renderci conto di quanto sia cambiato non solo il mercato del lavoro, ma di come si sia evoluta la mentalità delle persone e siano diverse le loro priorità.

Approfondisci questo tema leggendo “Attaccamento al lavoro e valori: generazioni a confronto”

La generazione che oggi ricopre ruoli manageriali e dirigenziali in azienda ha vissuto estati riempite di “lavoretti” e ha vissuto inserimenti professionali che prevedevano spesso stage sottopagati, gavette gratuite per imparare il mestiere o settimane lavorative da 60 ore perché essere un bravo dipendente significava sacrificarsi per l’azienda e mettere in secondo piano i sogni nel cassetto, le relazioni familiari e il tempo per sé; tutto, in cambio di un lavoro stabile e duraturo e di una identità personale che spesso veniva a coincidere con quella professionale, perché “io sono un operaio” e non “io lavoro come operaio”.

Ma le cose sono cambiate e gli studi ci dicono che i giovani oggi cercano benessere lavorativo, equilibrio lavoro e vita privata, tempo per sé. Di fronte a questo, le altre generazioni strabuzzano gli occhi perché queste non sono motivazioni “da giovani”, perchè i giovani dovrebbero essere energici, ambiziosi, affamati.

“Mi fa solo strano che a quella età si facciano già delle riflessioni del genere e non si lotti per i propri sogni e obiettivi” – cito da un commento che ho letto su LinkedIn qualche tempo fa in una discussione proprio su questo tema.
E di fronte a questo io mi chiedo: chi dice che i sogni e gli obiettivi siano solo professionali?

Nuovi valori, sogni, priorità

Sicuramente ci sono persone che hanno obiettivi riguardo alla propria carriera, che vogliono arrivare a posizioni di spicco in azienda o che sognano di raggiungere determinati livelli retributivi. Ma trovo limitante pensare che tutte le ambizioni di queste nuove generazioni riguardino la sfera professionale.

Sono altrettanto sicura infatti che ci siano persone che sognano di avere una famiglia molto numerosa e dedicare la maggior parte delle loro giornate a crescere i propri figli. Altre che vogliono dedicarsi ai propri hobby e magari avviare un piccolo progetto personale. Altre ancora aspirano a scrivere un libro, a scalare una montagna, a fare un viaggio intorno al mondo, a dedicarsi al volontariato… e chi più ne ha, più ne metta. Tutti obiettivi e sogni che non riguardano la sfera professionale ma che ci aiutano a crescere e a stare bene come persone e per questo sono ugualmente importanti rispetto alla carriera e ad una cospicua retribuzione, a qualunque età.

Scopri di più su questo tema leggendo anche la riflessione “Basta avvicinarsi e ascoltare”

Non fraintendetemi: non sto dicendo che non sia necessario impegnarsi sul lavoro o che allo scoccare delle 18 occorra spegnere tutto e correre all’uscita, come Bart Simpson al suono della campanella. Sono la prima – e come me tutti i colleghi con cui ho avuto il piacere di lavorare negli anni – a rimanere in azienda di più quando c’è bisogno, ad impegnarsi al massimo, a ridurre le proprie pause pranzo perché in quel momento occorre stringere i denti a causa di un picco di lavoro.

Ma riesco anche a mettermi nei panni di questi giovani che non sacrificano tutto per il lavoro perché nessuno straordinario pagato compenserà mai un pomeriggio in compagnia di un buon libro, lo stupore di fronte a quel panorama in quella capitale europea che volevi visitare da tempo, il piacere e il benessere derivanti dal dedicarsi ai propri hobby; e nessun aumento retributivo ti restituirà mai il momento in cui tuo figlio ha detto la sua prima parola o il tempo che non hai potuto dedicare ad amici ed affetti.

Il lavoro ha sempre previsto uno scambio tra il tempo e l’impegno di una persona e la compensazione in denaro, solo che adesso ci siamo resi conto che il nostro tempo è limitato, molto limitato, e come sempre accade quando una risorsa scarseggia, il suo valore e il suo costo sono aumentati a dismisura.

Il merito e la colpa di queste nuove generazioni è forse quello di aver ridato valore al nostro tempo e molti non sono più disposti a svenderlo, a regalare le proprie giornate in cambio di retribuzioni così basse da essere inammissibili da qualunque contratto, a guardare la maggior parte della loro vita scorrere al di là delle vetrine del negozio.

E questi giovani che sui social denunciano condizioni di lavoro al limite della legalità e che dicono quasi orgogliosamente di aver rifiutato l’offerta di lavoro che non li avrebbe soddisfatti stanno a mio parere cercando di riportare equilibrio in un mercato del lavoro in cui le recenti crisi e la mancanza di opportunità hanno sbilanciato tutto a favore del lavoro da accettare sempre e comunque perché non c’erano alternative. Ma ora le alternative ci sono e se ancora non ci sono andranno create per arrivare al tanto decantato work-life balance, dove la bilancia possa stare in equilibrio per davvero.

E se questo ci rende un po’ choosy, forse, va bene così.