Riflessioni

La storica rubrica di SCR torna protagonista anche nel nuovo progetto editoriale del gruppo, con i tradizionali momenti di pensiero, condivisione e commento sulle notizie di attualità che, direttamente o indirettamente, toccano il nostro settore. Strapperemo “confidenze” e momenti inediti dalle scrivanie dei team che gestiscono rectuitment, selezioni, consulenze e progetti speciali.

Quando il lavoro dei sogni è quello che hai lasciato

Ho notato che oggi c’è la tendenza ad inventare un termine in inglese per qualsiasi nuovo trend del mondo del lavoro: Quiet quitting, Great Resignation, Job Hopping etc.
Mi chiedo se prima o poi si inventeranno un termine anche per descrivere quando una persona torna a lavorare in un posto in cui ha lavorato in precedenza, magari qualcosa come Back Work, Ripensamenting?
In realtà forse non è un trend così in voga da meritarsi un nome, ma nel mio piccolo penso che questo tema meriti comunque una riflessione, in cui spero che anche altri possano riconoscersi.
Alla ricerca della “crescita professionale”
Parto col dire che sono una di quelle persone fortunate che ha potuto studiare ciò che desiderava e che senza troppi ripensamenti ha scelto una strada e l’ha portata avanti.
Dopo la laurea ed il tirocinio inizio la mia prima esperienza di lavoro in una piccola ma rinomata società di consulenza in una città della Romagna, appunto SCR Selezione e Consulenza per le Risorse Umane.
Se devo dire la verità non credevo che questo sarebbe stato il posto in cui sarei rimasta tutta la vita.
Sentivo che era mio dovere trovare qualcosa di più, fare qualcosa di più: un’azienda più grande, dei processi più strutturati e soprattutto la tanto agognata e fantomatica prospettiva di crescita.
Mi sembrava che fosse l’unico modo per sentirmi realizzata, la sola via percorribile per dare continuità a quello che avevo scelto come percorso e soprattutto per essere al passo con i miei coetanei. Ero convinta di volerlo a tal punto da voler cercare a tutti i costi di saltare fuori da quella che mi sembrava una boccia per i pesci troppo piccola.

Continuando a cercare, dopo qualche anno l’occasione è capitata ed effettivamente sono passata da quello che consideravo un piccolo stagno ad un vasto mare. La hall dell’azienda era grande, le persone erano tante, il nome era scritto persino sulla fantastica borraccia aziendale e tutto inizialmente appariva nuovo e scintillante.
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Le cose, però nel giro di alcuni mesi hanno cominciato a peggiorare e, senza entrare troppo nel merito se fosse “colpa mia o colpa sua”, ho cominciato ad avere crisi di ansia e sia la mia serenità sia la mia salute mentale cominciavano a risentirne.
Oltre a stare male per il lavoro avevo l’impressione di non avere via di fuga.
Non riuscivo a concepire che le cose non stessero andando come avevo previsto. Che non mi sentissi come credevo che mi sarei sentita.
In fondo quella vita l’avevo scelta io, era quello che volevo, la naturale conseguenza del mio percorso di studi, quello che avrebbe dovuto rendermi felice, darmi uno scopo, farmi sentire gratificata e realizzata. Del resto i miei familiari sembravano contenti, mi sentivo accettata dai miei ex compagni di università, dagli ex colleghi, dagli amici. Mi sembrava addirittura di avere un peso diverso nella società ora che potevo dire di lavorare in una grande realtà.
Con quale coraggio potevo andare a dire loro che le cose non erano tutte e rose e fiori e che avrei voluto mollare?
In una società in cui sembra che nessuno regali niente, che bisognerebbe baciarsi i gomiti per la fortuna di avere un lavoro stabile, anche soltanto l’idea di lasciare mi faceva venire i brividi.
Eppure ero infelice. Ed era un circolo vizioso da cui facevo fatica ad uscire.
Leggi anche la riflessione dei nostri Recruiter “I giovani non hanno voglia di lavorare (così dicono)”
L’importanza di ascoltarsi, anche contro le aspettative della società
Fortunatamente grazie anche all’aiuto di una psicologa sono riuscita a capire che non è il lavoro a definirci come persona, nonostante la società di oggi spesso ci porti a crederlo.
Che il fatto di mollare qualcosa, soprattutto se è qualcosa che ci fa stare male, non significa che non siamo all’altezza o che siamo deboli, ma al contrario. Che il fatto di voler avere una vita fuori dal lavoro è qualcosa di giusto e addirittura sano al giorno d’oggi, anche se spesso il messaggio che riceviamo quando ci guardiamo intorno non è quello.
E a quel punto ho trovato in me la forza di andare contro a tante cose: di andare contro alla tendenza della società che ci vorrebbe tutti ancorati al sogno di un’importante carriera basata su stress, mancanza di sonno e straordinari. Contro a ciò che gli altri potevano pensare nei miei confronti che volevo lasciare un contratto a tempo indeterminato e soprattutto contro a quella parte di me che mi continuava a dire che se mollavo voleva dire che “non ero abbastanza”.
Oggi dopo aver preso quella decisione ed essere tornata a lavorare in un posto dove sto bene e con condizioni di lavoro che mi permettono di avere una vita felice, penso a volte a tutte quelle persone che magari come me si sono sentite sbagliate a causa delle aspettative della società perché hanno deciso di “mollare”.
Approfondisci questo tema leggendo ” The Great Resignation: l’esodo volontario dei lavoratori under 40″

Viviamo in una società che spesso inneggia al sacrificio, alla tenacia, e al doversi mettere in secondo piano per ambire obbligatoriamente a qualcosa di più: “tu sei giovane devi fare carriera”, “se non spingi adesso che non hai figli quando lo fai?”, “alla tua età bisogna darsi da fare, “non va bene accontentarsi quando si hanno le energie”, “devi essere ambizioso”, “solo con il sacrificio si ottengono le cose”.
Credo che molti di noi si possano essere sentiti dire frasi del genere e non solo, e sono proprio frasi di questo tipo che inculcano nella testa delle persone che per essere giusti bisogna sempre desiderare qualcosa di più, fare carriera, crescere, guadagnare e che se tu non desideri queste cose sei uno scansafatiche o sei sbagliato.
È in questi casi che diventa fondamentale la capacità di ascoltarsi e di riflettere su quello che si desidera veramente, anziché seguire ciò che gli altri ci dicono che dovremmo desiderare.
Imparando ad ascoltarci e mettendo il nostro “stare bene” in primo piano saremo in grado di ignorare tutte le altre voci, non importa quanto grideranno forte, noi saremo già un passo avanti sulla strada che abbiamo deciso di percorrere.

Imprenditori si nasce o si diventa

Molte persone non trovano un lavoro e decidono di crearselo. Altre, invece, ne hanno uno, ma si sentono insoddisfatte, insofferenti  ai ritmi di lavoro imposto, alle gerarchie, a situazioni che non permettono loro di esprimersi a pieno. Queste persone sentono il bisogno e credono di poter fare di più. Decidono così di mettersi in proprio.
Ma imprenditori si nasce o si diventa?
Difficile rispondere con certezza. Ammettiamo che alcune situazioni imprenditoriali si possono acquisire per nascita: respirare fin da piccoli aria di imprenditorialità contribuisce a costruire le basi di un potenziale imprenditore. Ma ciò non toglie che la carriera imprenditoriale non si possa imparare.
Tutti noi abbiamo delle doti innate da valorizzare, ma per diventare imprenditore se ne devono aggiungere altre che si possono acquisire.
A volte, importanti virtù, rimangono nascoste per anni: sono la buona volontà, l’impegno, la perseveranza unite alla formazione e all’esperienza che ci fanno acquisire le competenze necessarie per diventare un imprenditore di successo.
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E quindi imprenditori si nasce o si diventa? Puoi diventarlo se sei bravo e se questo è il tuo obiettivo. Ma devi avere dentro la scintilla, quella molla che ti fa alzare tutte le mattine e lavorare per 15 ore, consapevole che il giorno dopo ne devi lavorare altrettante. Devi assumerti il rischio, mettere in conto che non vieni retribuito a tariffa oraria ma che dopo una giornata di lavoro probabilmente non incasserai neanche un euro. E il giorno dopo devi essere ancora lì, più forte di prima.

Ci vuole una grande forza d’animo e resistenza, ed aggiungo una solida famiglia alle spalle. Un parente o un’amica che ti tenga i figli quando si ammalano, un aiuto quando ti capita un imprevisto o anche solo una persona con cui sfogarti quando le cose non vanno bene. E poi c’è il dopo lavoro, che puoi concederti 2 o 3 volte al mese: una cena tra amici, un film, una passeggiata. Perché? Perché l’imprenditore non ha orari. Pensiamo a chi gestisce un ristorante: dopo la chiusura deve riordinare la cucina e preparare la sala per il giorno dopo. E il giorno dopo sveglia presto perché si deve andare a fare la spesa. E come se non bastasse, bisogna pensare anche alle strategie di marketing, ad organizzare eventi per attirare nuovi clienti.
Approfondisci questo tema leggendo anche “L’imprenditore H24”
Diventare imprenditori significa trarre vantaggio dalle piccole opportunità
Ma a questo punto chi glielo fa fare? Si sceglie sempre di diventare imprenditori?
La voglia di diventare imprenditore in Italia è davanti ai nostri occhi: questo perché intraprendere la strada dell’imprenditore porta con sé soddisfazioni umane, professionali ed economiche. Ma non è sempre così. Di fronte alla crisi che sta caratterizzando questo momento storico c’è anche chi cerca di superare la tempesta.

E mentre alcuni rimangono paralizzati dal terrore, altri reagiscono e traggono vantaggio anche dalle più piccole opportunità. E allora ricominci da capo la tua vita, ti reinventi, ti apri a nuove possibilità.
Perché come diceva Darwin, qui come nella giungla, non sopravvive il più forte, né il più intelligente, ma quelli che hanno maggiore capacità di adattarsi ai cambiamenti.
Allora sì, imprenditori si può nascere, ma lo si può anche diventare. Ci vuole informazione, perseveranza, capacità di sforzo, motivazione, preparazione, coraggio, un budget e perché no anche un pizzico di fortuna. All’inizio sarà difficile, ci saranno vittorie e sconfitte, ma ogni volta che si raggiungerà un traguardo sarà quella la molla che spingerà verso il prossimo obiettivo e il sacrifico ne varrà la pena.
Nessuno ha detto che sarebbe stato facile. Non lo è. Ma se è davvero quello che si vuole, ottenerlo merita lo sforzo che richiede.
 
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Punti di vista: uno, nessuno, centomila

Mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.”
Luigi Pirandello – Uno, Nessuno, Centomila
 
Vi siete mai chiesti di quanti e di quali punti di vista tenga in considerazione chi fa selezione o consulenza per un’azienda?
Molti forse penserebbero uno, quello dell’imprenditore o di colui/colei con il quale più strettamente si lavora per inserire la figura ricercata o per seguire i progetti di crescita dell’organizzazione. Certamente questo punto di vista è molto importante, anzi fondamentale in quanto consente di comprendere quali sono gli obiettivi che l’azienda desidera raggiungere, fornisce le prime importantissime informazioni su di essa e permette di cogliere quegli aspetti meno tangibili come i valori.
Ma come tutti i punti di vista è parziale e soggettivo. Non basta.
È perciò davvero utile e funzionale raccogliere altri punti di vista in modo da avere una visione più articolata di come il “sistema azienda” si muove.
Tutti hanno un ruolo e una responsabilità al suo interno; se non si tiene conto di questo, molto spesso si finisce per operare come tanti fanno, ovvero dire all’azienda cosa si vuole sentire dire. “Legare l’asino dove vuole il padrone”, come afferma il detto, a quanto serve?
Questa strada ha un grosso vantaggio, non scoperchia le resistenze che tutte le persone hanno, chi più chi meno, verso un cambiamento rappresentato anche solo dall’inserimento di una nuova figura in azienda o di qualcuno che dall’esterno fa domande, approfondisce, cerca di capire.

Scegliere questa via in un primo tempo appare molto più agevole e meno irta di difficoltà, ma purtroppo in questo modo non sempre si riesce ad ottenere quei risultati che l’azienda concretamente si aspetta da chi arriva dall’esterno e che a volte rappresenta comunque sempre un agente di cambiamento.
Approfondisci questo tema leggendo: “Analisi di clima e sostenibilità: il caso di un’azienda manifatturiera italiana”
E se progetti di consulenza o selezione hanno aiutato gli imprenditori ad uscire dal proprio punto di vista per dare un’occhiata a come vedono le cose i loro collaboratori, allora molto probabilmente questo potrà dare moltissime informazioni utili per affrontare nuovi progetti o gestire problematiche con una nuova consapevolezza e con strumenti mirati ed efficaci.
Chi opera in azienda in qualsiasi ruolo provi a vivere la consulenza come un’occasione per vedere con occhi diversi il quotidiano, l’imprenditore, i colleghi, come si lotta per raggiungere gli obiettivi o risolvere le problematiche. Spesso si finisce infatti per scrivere da soli il copione di bellissimi film dalle trame articolate che non necessariamente corrispondono alla realtà della propria azienda.
Chissà che uscendo un po’dal proprio punto di vista non si possa creare un finale magari molto più soddisfacente.

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Ozio creativo di fine estate

Un fine agosto torrido, come del resto tutta questa estate, mi sta con insistenza cantando alle orecchie melodie ammaliatrici che risuonano tipo: “manca ormai poco all’arrivo del grande freddo…Goditela…non stare lì…prendi pupa e paletta e vai al mare”.
Per fortuna che alla fine il mio lavoro mi piace altrimenti non avrei saputo come opporre resistenza. Approfitto di questa calma che spero apparente (…e breve, Ndr), per riflettere un po’ su di me, su quello che sto facendo e sulla strada che ho intrapreso.
Non so se sia una specie di meccanismo di difesa ma credo che un po’ tutti quelli che si buttano in avventure più grandi di loro lo fanno con un pizzico di incoscienza, senza capire e senza interrogarsi fino in fondo su cosa significherà spiccare quel volo e quali aspettative verranno mosse da quel gesto o da quella iniziativa.
Ecco, questo fine agosto mi sforzo di riflettere su questo. Quando ho deciso di buttarmi nell’avventura di creare una società di ricerca e selezione del personale, non ho pensato che alla fine sarei diventata, volente o nolente, un operatore di un mercato molto particolare dove “ci stiamo dentro un po’ tutti” e che quindi il modo in cui avrei operato e quello che avrei fatto avrebbe avuto dei riflessi oltre al singolo progetto o al singolo lavoro, su persone, aziende e  territori.
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Mi stupisco sempre quando qualcuno mi dice di aver sentito parlare di noi, di aver conosciuto qualcuno che ha raccontato la sua esperienza di selezione in SCR o che lavora presso una azienda a seguito di un percorso gestito dalla mia società. Mi stupisco quando mi accorgo che molte delle riflessioni che in questi anni io e la mia socia abbiamo fatto in realtà appartengono anche a tanti nostri colleghi.
Insomma, mi piacerebbe essere la classica mosca che ascolta le conversazioni senza essere vista e sapere cosa si dice in giro.
Qualche volta è così, qualche altra volta invece vorrei essere di più uno struzzo perché sapere che alcune persone hanno aspettative su me e sul mio lavoro, e che quindi io ho delle responsabilità nei loro confronti, un po’ mi spaventa.
Una responsabilità che se pensata e sentita non si può ignorare. E allora scattano mille dubbi: mamma mia, sarò all’altezza? E avrò posto attenzione a quel dettaglio, quella parola, quel segnale? Sarò stata mosca o struzzo?

Mi piacerebbe sapere se questi pensieri sono comuni ai miei colleghi, ma anche a imprenditori di altri settori e a coloro che ricoprono un ruolo attivo sia pubblico che privato nel mercato del lavoro. Mi piacerebbe inoltre conoscere le testimonianze di quelli che hanno deciso di essere più spesso mosca che struzzo, come Osvaldo Danzi di Fior di Risorse, del quale si può dire di tutto tranne che non ci abbia messo la faccia.
Sono anche vostri questi timori? Abbiamo capito che il nostro ruolo è diventato sempre più importante e delicato? Sappiamo essere parte di una rete sociale che aiuta a mantenere alta la dignità di questo mercato? Come partecipiamo  o non partecipiamo alle miserie e alle fortune del mondo del lavoro?
Si può fare agricoltura concependo la produzione agricola come una parte di una catena ampia di processi e di concetti che va dall’ecologia, all’amore per la terra, alla necessità di lasciare terreni sani e fertili per il futuro, fino alla cultura del cibo e del benessere delle persone e degli animali. Oppure si può produrre più prodotto possibile, più in fretta possibile, al minor costo, inseguendo il gusto del consumatore e sperando che sia il più possibile uniformato sui medesimi livelli organolettici.
C’è un modo giusto di fare? Non lo so; forse a volte non c’è nemmeno tanto da scegliere.
Però se si sceglie la strada più complessa, quella dove ci si sente attori e parte di un tutto che va valorizzato, credo che occorra essere coerenti con questa scelta, accettarne i vincoli, le responsabilità oltre che le opportunità che questa offre. Credo quindi che si debba anche ammettere di aver cambiato strada quando si cambia atteggiamento, anche quando si ritiene che “non ci sia tanto da scegliere in questo periodo”.

I giovani non hanno voglia di lavorare (così dicono)

Sarà stata la pandemia o il fenomeno della Great Resignation, si percepisce una forte carenza di personale in molti settori, primo fra tutti quello turistico, che alle porte della stagione estiva si è ritrovato con 70.000 professionisti in meno rispetto a quelli necessari per portare avanti le attività a pieno ritmo. Alcune realtà hanno dovuto persino rivedere i loro orari o i servizi per i clienti, a causa della mancanza di personale: è infatti di qualche settimana fa la notizia che Gardaland, il noto parco divertimenti, avrebbe chiuso prima le attrazioni per carenza di staff (emergenza successivamente rientrata).
A leggere i giornali, questa crisi sembra riguardare spesso ruoli molto operativi, come camerieri, baristi, braccianti agricoli, addetti alle attrazioni o agli stabilimenti balneari, lavori che possono essere svolti con una breve formazione, con livelli di scolarizzazione anche medio-bassi e per un periodo limitato come la stagione estiva. Per farla breve, mancano gli stagionali.
Mancano quindi moltissimi di quei ragazzi e ragazze che dedicavano la stagione estiva – che spesso coincide con una pausa dalla scuola o dall’università – a brevi lavori, per poter iniziare a mettere qualcosa da parte e porre le basi per una futura indipendenza economica.
Ma la mancanza di personale, derivante anche da una rapida inversione dei valori delle persone a cui non è corrisposto un adeguamento nello stile e nelle aspettative delle imprese, dovrebbe essere un’occasione non per colpevolizzare e generalizzare intere categorie professionali, ma un’opportunità per guardare alla propria azienda, analizzare il perchè del fenomeno che si sta vivendo, dare lustro ed evidenza ai valori fondanti, alla cultura, innovandosi e mostrando così quella flessibilità che spesso gli imprenditori ritengono un tratto distintivo della proposta di valore Made in Italy ma non dell’organizzazione del lavoro.
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Tuttavia, solo in pochi sembrano aver seguito questo ragionamento ed aver colto l’opportunità di miglioramento nella situazione di crisi. Molti – o forse pochi, ma che hanno generato un forte clamore mediatico – hanno risolto velocemente l’equazione che collega la mancanza di operatori stagionali alla scarsità di giovani propensi ad entrare nel mondo del lavoro. E da questa considerazione a puntare il dito contro la nuova generazione di giovani “svogliati”, il passo è stato breve.
La riflessione di una “giovane” Recruiter

Non so se, alle porte dei 30 anni, sono pienamente rappresentativa della generazione oggetto di tante discussioni in queste settimane, ma come Recruiter vivo su LinkedIn la maggior parte della mia giornata lavorativa e quotidianamente leggo discussioni su questo tema in cui, nel giro di un paio di commenti, si punta il dito contro intere generazioni di giovani, colpevoli di essere “svogliati”, “viziati” e “senza spirito di sacrificio”.
Fin qui, niente di nuovo. Correva l’anno 2012 quando l’allora Ministro del Welfare Elsa Fornero definiva i giovani italiani “choosy”, scatenando un vespaio di polemiche. E dopo 10 anni, con un mondo radicalmente cambiato sotto i nostri piedi, sembra che tutto sia tornato al punto di partenza, a questi giovani “schizzinosi” che non accettano il lavoro che il mercato gli offre o che sono disposti a mollare tutto pur di investire su altre attività e su una migliore qualità di vita nel complesso, piuttosto che sulla carriera.
Proprio su questi aspetti le generazioni si dividono e forse solo ora iniziamo a renderci conto di quanto sia cambiato non solo il mercato del lavoro, ma di come si sia evoluta la mentalità delle persone e siano diverse le loro priorità.
Approfondisci questo tema leggendo “Attaccamento al lavoro e valori: generazioni a confronto”
La generazione che oggi ricopre ruoli manageriali e dirigenziali in azienda ha vissuto estati riempite di “lavoretti” e ha vissuto inserimenti professionali che prevedevano spesso stage sottopagati, gavette gratuite per imparare il mestiere o settimane lavorative da 60 ore perché essere un bravo dipendente significava sacrificarsi per l’azienda e mettere in secondo piano i sogni nel cassetto, le relazioni familiari e il tempo per sé; tutto, in cambio di un lavoro stabile e duraturo e di una identità personale che spesso veniva a coincidere con quella professionale, perché “io sono un operaio” e non “io lavoro come operaio”.
Ma le cose sono cambiate e gli studi ci dicono che i giovani oggi cercano benessere lavorativo, equilibrio lavoro e vita privata, tempo per sé. Di fronte a questo, le altre generazioni strabuzzano gli occhi perché queste non sono motivazioni “da giovani”, perchè i giovani dovrebbero essere energici, ambiziosi, affamati.
“Mi fa solo strano che a quella età si facciano già delle riflessioni del genere e non si lotti per i propri sogni e obiettivi” – cito da un commento che ho letto su LinkedIn qualche tempo fa in una discussione proprio su questo tema.
E di fronte a questo io mi chiedo: chi dice che i sogni e gli obiettivi siano solo professionali?
Nuovi valori, sogni, priorità
Sicuramente ci sono persone che hanno obiettivi riguardo alla propria carriera, che vogliono arrivare a posizioni di spicco in azienda o che sognano di raggiungere determinati livelli retributivi. Ma trovo limitante pensare che tutte le ambizioni di queste nuove generazioni riguardino la sfera professionale.

Sono altrettanto sicura infatti che ci siano persone che sognano di avere una famiglia molto numerosa e dedicare la maggior parte delle loro giornate a crescere i propri figli. Altre che vogliono dedicarsi ai propri hobby e magari avviare un piccolo progetto personale. Altre ancora aspirano a scrivere un libro, a scalare una montagna, a fare un viaggio intorno al mondo, a dedicarsi al volontariato… e chi più ne ha, più ne metta. Tutti obiettivi e sogni che non riguardano la sfera professionale ma che ci aiutano a crescere e a stare bene come persone e per questo sono ugualmente importanti rispetto alla carriera e ad una cospicua retribuzione, a qualunque età.
Scopri di più su questo tema leggendo anche la riflessione “Basta avvicinarsi e ascoltare”
Non fraintendetemi: non sto dicendo che non sia necessario impegnarsi sul lavoro o che allo scoccare delle 18 occorra spegnere tutto e correre all’uscita, come Bart Simpson al suono della campanella. Sono la prima – e come me tutti i colleghi con cui ho avuto il piacere di lavorare negli anni – a rimanere in azienda di più quando c’è bisogno, ad impegnarsi al massimo, a ridurre le proprie pause pranzo perché in quel momento occorre stringere i denti a causa di un picco di lavoro.
Ma riesco anche a mettermi nei panni di questi giovani che non sacrificano tutto per il lavoro perché nessuno straordinario pagato compenserà mai un pomeriggio in compagnia di un buon libro, lo stupore di fronte a quel panorama in quella capitale europea che volevi visitare da tempo, il piacere e il benessere derivanti dal dedicarsi ai propri hobby; e nessun aumento retributivo ti restituirà mai il momento in cui tuo figlio ha detto la sua prima parola o il tempo che non hai potuto dedicare ad amici ed affetti.

Il lavoro ha sempre previsto uno scambio tra il tempo e l’impegno di una persona e la compensazione in denaro, solo che adesso ci siamo resi conto che il nostro tempo è limitato, molto limitato, e come sempre accade quando una risorsa scarseggia, il suo valore e il suo costo sono aumentati a dismisura.
Il merito e la colpa di queste nuove generazioni è forse quello di aver ridato valore al nostro tempo e molti non sono più disposti a svenderlo, a regalare le proprie giornate in cambio di retribuzioni così basse da essere inammissibili da qualunque contratto, a guardare la maggior parte della loro vita scorrere al di là delle vetrine del negozio.
E questi giovani che sui social denunciano condizioni di lavoro al limite della legalità e che dicono quasi orgogliosamente di aver rifiutato l’offerta di lavoro che non li avrebbe soddisfatti stanno a mio parere cercando di riportare equilibrio in un mercato del lavoro in cui le recenti crisi e la mancanza di opportunità hanno sbilanciato tutto a favore del lavoro da accettare sempre e comunque perché non c’erano alternative. Ma ora le alternative ci sono e se ancora non ci sono andranno create per arrivare al tanto decantato work-life balance, dove la bilancia possa stare in equilibrio per davvero.
E se questo ci rende un po’ choosy, forse, va bene così.

Basta avvicinarsi e ascoltare

Ricordo ancora quando i miei genitori dicevano: questi giovani proprio non li capiamo, senza veri valori, senza veri interessi. Ed io mi avviavo verso la giovinezza e nella mia mente i più grandi interrogativi ed aneliti di giustizia si scontravano creando aspirazioni, sogni, desideri ed anche una profonda struttura valoriale che poi, nella vita mi ha permesso di fare scelte a volte incomprensibili ai più.
Mi ritrovo, adesso, che oramai guardo alle nuove generazioni con fare curioso e non mi accontento delle facile letture sommarie: “non sanno cosa vogliono, sono disorientati, non hanno più grandi ideologie di riferimento”. Questi giovani sembrano lontani millenni dalla generazione che li precede.
Le nuove possibilità tecnologiche hanno creato un divario enorme tra “noi” e “loro”. Ma basta cambiare punto di vista, avvicinarti ed ascoltare: si potrebbe rimanere inebriati da quello che si coglie.
I giovani di adesso, i Millennials e la Gen Z, quelli che non ti guardano negli occhi perché persi in un mondo virtuale, quelli senza più grandi ideologie di riferimento, quelli che cambiano lavoro spessissimo perché presi da un sistema di precariato che sviluppa in modo incredibile la loro flessibilità, sono una platea di persone dalla quale poter imparare tantissimo.
Approfondisci questo argomento leggendo “Attaccamento al lavoro e valori: generazioni a confronto”
Le scelte che caratterizzano i nostri “ragazzi” sono date da elementi valoriali insospettabili: la cura dell’ambiente, la sostenibilità di filiera del prodotto, il ritrovarsi in un ambiente che è anche bello, di quella bellezza data dall’arte, dalla cultura, dal volersi porre e sentire vicino anche con il vicino di chat social, che magari vive in un Paese lontanissimo e che poi così diverso da noi non è.
I valori delle nuove generazioni

Stiamo lavorando presso clienti legati al mondo dell’alimentari e della ristorazione, ci ritroviamo tutti i giorni a conoscere giovani che si muovono in ambienti complessi ed il più delle volte con una tutela del lavoro non sempre semplice e non sempre comprensibile: la grande sorpresa è sentire che per loro, questi giovani così sconosciuti, il valore del team, il valore dell’armonia vale tantissimo. Il poter sperimentare che con la qualità, sia del prodotto che del servizio, si arriva a conquistare il cliente ed a fidelizzarlo, sono concetti per loro fondamentali ed in qualche modo già insiti nella loro modalità di lavoro e nel loro concetto di “soddisfazione lavorativa”.
Il poter dire: “lavoro in un posto etico, i fornitori li conosco e con loro condivido le difficoltà di una filiera sostenibile, faccio parte di qualcosa nella quale sono orgoglioso di riconoscermi” è uno del principali fattori motivazionali per questi ragazzi.
E oggi posso dire grazie a questa gioventù che sembra così disincantata ed invece cerca semplicemente altro dal mondo a cui vuole appartenere, dico grazie a questi giovani dai quali così tanto sto imparando. Noi adulti, noi imprenditori dovremmo stare maggiormente in ascolto, dedicare più tempo alla loro possibilità di aprirsi, di raccontare cosa voglia dire per loro muoversi n questo mondo così complesso – e per certi versi decadente – che gli stiamo lasciando in mano.
Insieme costruire dei significati in un un’ottica che sia di reciproca integrazione: noi e la nostra esperienza, loro ed il loro desiderio di incidere, di poter dire “io conto qualcosa nel poter realizzare il mio mondo migliore”.

Il coraggio di cambiare

È possibile cambiare lavoro a 40 anni?
Cosa porta a dare una svolta alla nostra vita quando pensiamo di avere un posto e una carriera sicuri? Insoddisfazione personale? Necessità? Semplice voglia di cambiare?
Qualunque sia la motivazione, cambiare lavoro a 40 anni si può.
Spesso abbiamo paura del cambiamento di carriera, abbiamo alle spalle molti anni di esperienza e una trasformazione potrebbe rappresentare un vero salto nel buio, ma quando arriva il coraggio di affrontare l’ignoto, di prendersi un momento per sé si può affrontare tutti e tutto: sé stessi per primi.
Ve ne parlo perchè l’ho vissuto sulla mia pelle: a 39 anni mi sono licenziata dopo aver trascorso vent’anni all’interno della stessa azienda.
Pensavo che ormai fosse la mia vita; ho studiato per quel lavoro, sono diventata una responsabile e un membro del CDA, mi sono creata il mio ambiente e dopo tanti anni non avrei minimamente pensato a un possibile cambiamento.
Poi però qualcosa si rompe, percepisco che tutto lo stress che sento aumenta di giorno in giorno, quello stress che fino al giorno prima riuscivo a gestire si trasforma in malessere e si fa sempre più viva l’idea che quel lavoro non lo sento più mio. Così tutti gli sforzi fatti, tutta la passione che mi ha accompagnata quotidianamente iniziano a pesare a tal punto che il coraggio di cambiare ha il sopravvento.
Approfondisci questo tema leggendo “Cambiare lavoro, che paura”

A volte comprendiamo che il binario professionale che stiamo percorrendo non è più il nostro e vogliamo iniziare a camminare lungo un altro, ma non è mai una scelta semplice e si hanno mille dubbi e incertezze: la paura di perdere quello che si è conquistato, la preoccupazione di non trovare niente di meglio, il pensiero di non sapere cos’altro poter fare, l’ansia che sia ormai troppo tardi per realizzare i propri sogni. A questo si aggiunge il peso dei commenti di parenti, amici e conoscenti: c’è chi considera questa una scelta pazza ma coraggiosa, chi invece la ritiene solo una scelta azzardata, soprattutto perché c’è crisi ed è difficilissimo trovare lavoro, si hanno delle responsabilità, bisogna portare pazienza e si supererà il momento di stress. In pochi si soffermano a capire, comprendere e sostenere la decisione e la motivazione che porta una persona a lasciarsi alle spalle il lavoro di sempre.
Cambiare a volte è necessario per l’essere umano ed è inevitabile che la paura accompagni il cambiamento: essa va accettata come parte del percorso di crescita.
A 40 anni si è più maturi (almeno lo si spera!), si è consapevoli delle proprie capacità e questo è sicuramente un grosso aiuto per capire su cosa orientarsi. Può essere l’occasione giusta per intraprendere finalmente una professione che ci piace davvero, affrontare nuove sfide e vivere nuovi stimoli. Per fare tutto questo dobbiamo armarci di coraggio, pazienza, determinazione e passione.
Insomma non è pazzia come molti possono pensare, bensì è osare per rimetterci in gioco più carichi, pronti ad affrontare una nuova vita e ricominciare con maggior grinta.
Non sono le solite frasi fatte: realmente dobbiamo volerci bene per percorrere dignitosamente la nostra strada, dobbiamo trovare il coraggio perchè, a volte, migliorare la nostra vita significa semplicemente cambiare lavoro.
Ora ho trovato un nuovo lavoro, non so se sarà il lavoro della mia vita, nessuno può prevedere il futuro, ma sicuramente è il mio nuovo lavoro, uno che mi dà la possibilità di mettermi alla prova e dare il massimo, è il lavoro che mi permette di star bene.
 
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Hybrid Workplace: il futuro del lavoro è sempre più “ibrido”

Nel mondo sono tante le aziende che stanno rimandando il ritorno in azienda, ma tutte stanno riflettendo sulla modalità di affrontare il post-pandemia. Le idee sono diverse, si trovano su questo argomento diversi studi e ricerche, che appoggiano una direzione rispetto ad un’altra.
C’è chi promuove una situazione invariata e quindi un rientro totale in azienda cercando di incoraggiare e convincere i propri dipendenti che lavorare di nuovo nello stesso luogo sia la giusta soluzione anche in termini sociali, dopo quasi due anni di restrizioni e distanziamento. Secondo alcuni studi infatti lunghi periodi di lavoro da casa hanno avuto effetti negativi con la comparsa di maggiori episodi di ansia (56% del campione di un’indagine di Forbes) o maggiore distrazione (32% da Upwork) o calo di produttività (45% Eagle Hill Consulting).
Altri sostengono che i lavoratori non possono semplicemente tornare alle vecchie modalità in quanto questo può provocare malessere e fuoriuscite aziendali verso contesti più “flessibili”.
E io, in mezzo a queste posizioni contrastanti, mi chiedo: sarà possibile cancellare questa esperienza vissuta nel 2020,  che seppur obbligata ed imposta rimane ancora forte nella nostra mente e tornare indietro senza se e senza ma?
La risposta è ovviamente scontentata per alcune tipologie di lavoratori che non possono usufruire di questo modo nuovo di vivere l’azienda, per tanti, invece, è giusto e necessario aprire una finestra e dare l’opportunità di ripensare alla vita lavorativa non condizionata da un luogo fisico e da orari rigidi.
Approfondisci questo tema, leggi anche “The Great Resignation: l’esodo volontario dei lavoratori under 40”
 
Il lavoro ibrido potrebbe mettere d’accordo candidati e aziende

In sintesi, da un lato non possiamo tornare alle modalità organizzative del 2018/2019, che ormai sembrano così lontane, dall’altro però gli studi stanno dimostrando che lo smart working non è adatto a tutti e che il lavoro agile, così come l’abbiamo vissuto nel 2020, porta anche conseguenze negative sul benessere delle persone.
Allora forse l’“hybrid workplace”, ovvero alternare il lavoro in presenza con quello da remoto fornendo ai lavoratori gli strumenti fisici ma anche organizzativi e gestionali, può essere una soluzione per permettere alle aziende di ripensarsi, riprogettarsi, rinnovarsi ed organizzarsi in base alle esigenze del loro business. In questo senso, sviluppare una esperienza sia fisica che digitale è forse da intendersi come un auspicabile futuro per i lavoratori e le aziende.
Scopri di più sulle modalità di lavoro a distanza leggendo “L’evoluzione del lavoro da remoto: dal telelavoro al nomadismo digitale” 
Proprio in questi giorni Cisco sta presentato i dati di una ricerca “Global Hybrid Work Index”, in cui viene mostrato come le tendenze delle persone si sono rimodellate nell’ultimo anno e mezzo e che il 64% è d’accordo sul fatto che la possibilità di lavorare da remoto è direttamente correlata alla scelta di rimanere o lasciare un lavoro; quindi anche la fedeltà ad un contesto è influenzata da questi elementi.
Questo sentire, il mormorio di questi cambiamenti non avviene solo oltreoceano, nelle grandi metropoli o nelle multinazionali; per tutti ora diviene necessario riflettere sul bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata.
Chi come noi si occupa di consulenza nelle aziende e ricerca personale, fa i conti ogni giorno con questo cambiamento e questa nuova visione. Le persone ormai non pongono solo domande su quale sarà il loro ruolo ed attività in azienda o quale sia il contratto o la retribuzione.
Il focus è sempre più spostato su quanto l’azienda si sia adeguata al nuovo modello e quindi se “c’è flessibilità oraria” oppure se “sono previsti dei giorni di lavoro da remoto”.
Non si tratta di attirare solo i cosiddetti talenti, quei professionisti che da sempre sono complessi da ricercare, ma anche profili per cui, fino a qualche anno fa, si svolgevano importanti attività di scrematura di centinaia di curriculum di persone che si proponevano spontaneamente e su cui oggi un selezionatore si trova a fare attività spinta di head-hunting.
Il lavoro ibrido, dunque, non è più un plus che crea benessere lavorativo, ma è sempre di più una condizione di base e un importante elemento di aggancio quando si cercano nuovi professionisti, che siano essi junior o senior.
 
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Cambia il mondo, cambiano i valori

Ciascuno di noi, in maniera più o meno consapevole, ha bisogno di far riferimento ad un sistema di valori e anche le organizzazioni, come insieme di persone, hanno bisogno di far riferimento ad un loro sistema di valori.
Già un nostro precedente articolo avevamo esaminato come ciò che le persone cercano nel lavoro sia cambiato nel corso del tempo, come il sistema valoriale della generazione Y sia diverso da quello dei Baby Boomers, e come quindi anche le aziende, di conseguenza, abbiano cambiato il loro sistema valoriale.
L’ultimo anno e mezzo è stato caratterizzato da un enorme cambiamento nelle nostre abitudini di vita e di lavoro e questo ha modificato anche il nostro sistema valoriale e quindi anche le nostre aspettative sui valori che vorremmo fossero condivisi, e attuati, nell’azienda in cui lavoriamo.
Il tema è estremamente attuale, tant’è che in rete già si trovano articoli sull’argomento. Da un recente studio pubblicato dal network di consulenza di comunicazione strategica /amo, emerge che se prima della pandemia al primo posto tra le macro categorie di valori aziendali si collocava “Etica e integrità”, a prevalere è ora il senso di comunità, riscoprendo nel benessere degli altri sul posto di lavoro anche il nostro di benessere.

Nel complesso, riferisce lo studio, le aziende stanno mettendo più enfasi sulla loro responsabilità verso i membri della società, mostrando una crescente determinazione oggi, rispetto a prima della pandemia, nell’avere cura e attenzione verso le persone in generale (oltre che verso specifici gruppi di stakeholder come dipendenti, clienti o azionisti). Quasi la metà di tutte le aziende recensite (47,4%), infatti, cita almeno un valore associato alla preoccupazione verso le persone e la comunità, un aumento dell’11% rispetto al precedente anno.
I valori personali e professionali sono cambiati
Integrità, innovazione, rispetto, responsabilità e sostenibilità, sono questi i primi cinque valori aziendali emersi dallo studio a livello globale. Per quel che riguarda l’Italia i valori aziendali più importati nel post pandemia sono, dal primo al quinto:

sviluppo sostenibile
innovazione
cura delle persone
trasparenza
diversità e inclusione

Come sempre il mio lavoro mi ha consentito di entrare in contatto e di confrontarmi con tantissime persone e aziende, permettendomi di avere una finestra, non certo globale, ma senz’altro reale e partecipata di come sono stati vissuti momenti che nessuno di noi credeva di vivere, che ci hanno portato ad utilizzare una terminologia usata solo in tempo di guerra come ad esempio lock down o coprifuoco. Abituata a stare in una mia zona di comfort, mi zono trovata anche io, come tanti, a muovermi in un mondo che stava cambiando, con certezze che si stavano sgretolando, pensando, all’inizio, che la cosa a breve sarebbe rientrata (ci ricordiamo i famosi 15 gg in cui tutti speravamo? Resistiamo altri 15 giorni e poi tutto tornerà come prima), per poi rendermi conto che di sicuro non cambierà a breve e chissà se mai sarà come prima.
Vuoi conoscere il livello di benessere nella tua azienda? Scopri l’Analisi di Clima
Il nostro modo di lavorare si è trasformato e abbiamo scoperto, anche con piacere, che cose impossibili, come il tanto richiesto smart working, che parevano impossibili da realizzare si potevano fare. Penso che lo smart working sia veramente esemplificativo del cambiamento valoriale che sta avvenendo. La generazione Y, i famosi Millennial, vedevano la flessibilità lavorativa come importantissima per consentire la conciliazione fra vita privata e lavorativa, che non è rappresentata solo dalla possibilità per una mamma di gestire un figlio piccolo ma anche di un giovane coltivare i propri interessi e passioni.
Dopo un periodo iniziale di contentezza rispetto al fatto che finalmente lo smart working era stato sdoganato, ho iniziato a vedere nei colloqui sempre più persone stanche di lavorare in smart working, di alzarsi la mattina d’inverno e mettersi pile e pantofole e d’estate maglietta e infradito.
Ho parlato con persone che da marzo 2020 non sono ancora rientrate in ufficio e con responsabili che non sono ancora riusciti a fare una riunione con tutto il team in presenza. Ho sentito tante persone dire “voglio tornare a lavorare, a fare la pausa caffè col mio collega”, insomma di avere relazioni lavorative non solo a distanza.

Come sappiamo ogni crisi rappresenta l’opportunità di cambiare, di cambiare il nostro modo di vedere le cose, di reagire, di capire cosa è importante e cosa no. Le crisi possono essere delle rivelazioni perché ci obbligano ad uscire dal nostro tran tran, ci obbligano (o ci invitano?) a studiare e approfondire quello che sta succedendo intorno a noi, a rimettere in fila le nostre priorità, ci permettono, a volte, di capire i nostri limiti e scoprire nostri nuovi talenti.
La cura delle persone: un valore per garantire benessere in azienda
Vedere che tra i primi 5 valori in Italia ci sono cura delle persone, trasparenza, diversità e inclusione mi rende felice. Credo che il nostro tessuto imprenditoriale fatto di piccole e medie imprese sia quello più adatto per portare avanti questo sistema valoriale in un momento storico in cui sempre più forti si fanno le istanze divisive.
Approfondisci il tema leggendo anche la riflessione di Stefania Suzzi “Il paradosso del barista”
Credo che i nostri imprenditori, e noi di SCR ci mettiamo a pieno titolo fra questi, siano in grado, e abbiano il dovere, di interpretare in un modo pieno, completo, il termine cura della persona, che non è solo garantire la massima sicurezza sul luogo di lavoro ma impegnarsi per garantire a tutti i lavoratori il più alto livello possibile di salute, salute definita dall’OMS come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”. Obiettivo che in questo momento può essere raggiunto solo favorendo una corretta informazione, ascoltando le diverse opinioni, favorendo la creazione di ponti anziché di muri, accogliendo le nuove diversità consapevoli che la diversità ha sempre favorito lo sviluppo delle conoscenze e delle competenze.

Sono convinta che oggi è quanto mai indispensabile abbassare i toni del conflitto e favorire il confronto e l’inclusione. Favorire l’ascolto, ascolto delle opinioni dell’altro e ascolto, perché di questo spesso di tratta, delle paure dell’altro, qualsiasi esse siano, indipendentemente dal fatto che per noi siano futili o che siamo anche noi terrorizzati…ma da altre paure. Credo che dobbiamo allenarci ad un ascolto gentile e intendo con gentilezza la capacità di far star bene gli altri, un modo per contribuire al benessere emotivo di chi ci circonda, un sorriso espresso a parole, il saper comprendere e rispettare le esigenze altrui.
Se saremo capaci di rimanere lucidi e centrati, se saremo capaci di diventare ambasciatori dell’ascolto gentile allora riusciremo davvero a trasformare questa crisi in opportunità dando concretezza a un valore fondante dell’essere comunità: la libertà.

Trovare il lavoro che piace: utopia o percorso necessario?

È già difficile trovare lavoro, ma trovare addirittura un lavoro che piace, è possibile?
Questa è sicuramente la prima domanda che può venire alla luce, ma come tutti ben sappiamo, stare bene in un contesto lavorativo e svolgere un ruolo che ci appassiona e ci motiva, rende le nostre “ore” più interessanti; stare bene al lavoro, poi, ci fa tornare a casa ed accogliere la nostra famiglia con un sorriso, e questo, non è banale e scontato.
La consapevolezza di tutti è che il lavoro ci prende più tempo di tutte le altre attività che svolgiamo durante la settimana, dunque diviene ovvio che per migliorare il nostro benessere è necessario scegliere e cercare un lavoro che sia per noi interessante e farlo con i migliori atteggiamenti e gli strumenti più efficaci.
Spesso si sente dire “cercare lavoro, è un lavoro!” ed è assolutamente vero.
Questa è un’attività che è diventata ricorrente nella vita delle persone, dunque dobbiamo imparare a farla bene, considerato che, nella maggior parte dei casi, non viene insegnata a scuola o al lavoro.
Ma se siamo capaci di scegliere il meglio per noi nella vita di tutti i giorni, come l’attività sportiva da svolgere (o da non svolgere in alcuni casi), i paesi da visitare in viaggio, o più semplicemente, i cibi da portare sulla nostra tavola, ci fa comprendere che il punto di partenza è proprio la conoscenza di sé, dei propri punti di forza ed anche, perché no, dei nostri limiti.
Approfondisci il tema leggendo “Comprendere le proprie capacità per fare un lavoro che ci piace”
Scegliere il lavoro: percorso da professionisti o fai da te

Per chi ha una disponibilità di tempo ed economica si può servire di professionisti che ci indirizzano attraverso strumenti variegati da svolgere in gruppo, come una specifica formazione, piuttosto che percorsi individuali in cui si va ad indagare più nel dettaglio le caratteristiche e le competenze della persona.
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Se invece, vogliamo usare il metodo del fai da te, la tecnologia e il web ci vengono in aiuto. Ormai su internet si trovano manuali per ogni cosa, l’unica complessità risulta scegliere, ma se partiamo dal presupposto che siamo capaci di individuare quello che è meglio per noi, dopo qualche approfondimento, si può già avere qualche idea utile.
Il primo atteggiamento da utilizzare, in questa fase di cambiamento, è però non accettare ciò che arriva, ma concedersi la possibilità di scegliere.
Si può fare? Certo, ma prima bisogna accettare una conversazione con se stessi, nella quale devono essere definiti gli obiettivi e la direzione da dare al proprio futuro.
Alle volte non è necessario neppure cambiare lavoro per essere più soddisfatti, ma semplicemente accettare dei compromessi pur rimanendo fedeli a se stessi ed ai propri obiettivi.
I più fortunati sono, poi, inseriti in contesti lungimiranti, con imprenditori che hanno la consapevolezza che alle volte è risolutivo servirsi di professionisti della consulenza per migliorare la vita dei propri collaboratori e quindi farli diventare più performanti, rispetto ad un mercato che richiede sempre più professionisti motivati e felici. Vi posso assicurare che questi imprenditori esistono! Proprio il vostro capo potrebbe essere uno di quelli che sempre più spesso ci contattano perché comprendono che questo tipo di percorso è necessario, ma che soprattutto è utile, non solo al benessere aziendale, ma anche a migliorare i fatturati.

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