I lavori del nuovo millennio

Lavori emergenti, nuove competenze e orientamento professionale, dalla scelta dei percorsi formativi fino al ricollocamento: un angolo attraverso cui osservare la trasformazione in atto del mercato del lavoro e l’impatto delle tecnologie innovative.

Omaggio alla gentilezza: il nuovo paradigma della Leadership

È assodato che coltivare stati mentali positivi come gentilezza e compassione migliora la salute sia fisica che mentale, favorendo il nostro benessere. Lo scrittore greco Esopo sosteneva che
“Per quanto piccolo, nessun atto di gentilezza è sprecato”.
Nell’epoca della rincorsa contro il tempo e dell’orologio che scandisce i nostri mille impegni, gli atti di gentilezza rappresentano quasi delle “inutili formalità”, come salutare il proprio vicino o ringraziare il barista per il caffè. Si potrebbe pensare che la gentilezza renda una persona noiosa o fragile, quasi fuori dal mondo, lo stesso mondo che ci vuole performanti e ambiziosi, pronti a lottare con le unghie e con i denti per raggiungere i nostri obiettivi.
Le dinamiche degli ultimi anni ci hanno portato a vedere il mondo con occhi diversi, a dare nuovamente importanza ai valori, oltre che alla cura di sé e degli altri. Tutti abbiamo sperimentato la paura e il senso di precarietà e le emozioni sono tornate prepotentemente alla ribalta.
La gentilezza nei contesti organizzativi

Questa attenzione al mondo interiore delle persone ha fatto sì che il concetto di gentilezza potesse assumere maggiore importanza anche all’interno delle organizzazioni.
Instaurare una cultura della gentilezza permette lo sviluppo della fiducia, crea spirito di squadra, supporta la produttività e permette di creare un ambiente “sicuro”, in cui gli individui possano aprirsi all’altro, portare il proprio supporto e il proprio contributo.
Cristina Milani, psicologa e consulente d’impresa, nel suo libro “La forza nascosta della gentilezza” parla del potere dei piccoli gesti negli ambienti lavorativi, da cui scaturiscono situazioni positive che portano ad appagamento e coinvolgimento in tutti membri di un’organizzazione. L’azienda può far crescere le persone e può trarne benefici enormi, sia in termini di coinvolgimento, sia in termini di valore che si genera.
La Leadership Gentile
La nascita di un nuovo modo di intendere il Leader
Di pari passo con l’ingresso nelle organizzazioni, il concetto di Gentilezza si è avvicinato sempre di più al concetto di leadership, diventando una qualità fondamentale – al pari di carisma o fermezza – per chi si occupa di guidare e sviluppare le capacità delle persone nelle organizzazioni.
Il premio Nobel per l’economia, Richard H. Thaler parla di “Spinta gentile”, ovvero della capacità di far compiere azioni senza imposizioni, bensì creando le condizioni adatte per influenzare gli altri. Applicata all’ambito aziendale, questo significa che è necessario creare relazioni che aiutino le persone ad esprimere il meglio di sé,  assumersi il rischio di essere sinceri e consapevoli dei propri schemi mentali, per poter condividere insieme punti di vista, pareri e perché no, sogni.

Questa concezione ha contribuito alla nascita di un nuovo modello di Leadership, quello della Leadership Gentile: un approccio di gestione e guida delle persone mette al centro l’empatia, il rispetto e la collaborazione come pilastri fondamentali per guidare un team verso il successo. Nel periodo storico che stiamo vivendo questo rappresenta dei modelli più percorribili per aziende che mirano alla creazione di valore (Il Sole 24 ore, 2022).
Scopri tutti gli stili di Leadership descritti da Goleman nell’articolo ” Dimmi che leader vorresti essere e ti dirò che stile hai”
Le caratteristiche della Leadership Gentile
La Leadership Gentile sfata il mito secondo cui chi dialoga è debole, o secondo cui chi rispetta gli altri perderà.
Un Leader consapevole e in grado prendersi cura di sé stesso, sarà pronto a prendersi cura anche dell’altro, poiché conoscerà i suoi limiti e i suoi punti di forza e potrà riconoscerli anche nelle persone che coordina. Così facendo, la “relazione di cura” si estende a un team e, in progressione, ne gioverà l’intera organizzazione.
Guido Stratta, direttore People and Organization del Gruppo Enel è uno dei più grandi promotori di questo nuovo modello di Leadership e sostiene con fermezza che “il manager deve necessariamente creare un’orchestra di individui che collaborano e si coordinano reciprocamente. È necessario rompere lo schema tradizionale che prevede che gli alti ruoli gerarchici si facciano affiancare da un team di simili nel tentativo di cercare di costruire repliche di sé stessi” (Il potere della leadership gentile, 2021).

La priorità del Leader Gentile è quella di creare uno spazio d’ascolto per garantire una comunicazione proficua, dove prima di spiegare ai membri del team “come fare” qualcosa, si può chiedere: “che idea hai su questo progetto?”.
Utilizzando una metafora culinaria, si può partire da un primo piatto di domande aperte, che lascino spazio e libertà di espressione, il tutto condito da un ascolto attivo e sincero. Gli ingredienti chiave di questa portata sono, empatia, ascolto e assertività. Occorre imparare ad osservare l’altro nella sua complessità, cercandone la motivazione intrinseca e ottenendo il massimo rendimento attraverso le proprie passioni e il proprio talento.
Spesso uno degli ostacoli maggiori di questo processo è il cinismo, insieme ad una sorta di tendenza che porta a replicare ciò che si è subito. Tuttavia, questa predisposizione va combattuta, competendo con noi stessi e collaborando con gli altri. È necessario prendere le distanze dalla storia che abbiamo vissuto e assumerci il coraggio di cambiarla in meglio.
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Dimmi che leader vorresti essere e ti dirò che stile hai

Di recente, stiamo approfondendo il tema della leadership, competenza fondamentale per chi si trova alla guida di aziende e team di lavoro. Per esplorarlo al meglio, abbiamo voluto coinvolgere i nostri follower, chiedendo il loro punto di vista con un sondaggio su LinkedIn.
L’obiettivo era di indagare quali fossero le modalità preferibili per i leader nel mondo del lavoro; in particolare, abbiamo chiesto loro di pensarsi come una figura di riferimento – che lo siano o meno – e di indicarci che tipo di leader vorrebbero essere, indicando così gli aspetti principali nel momento in cui si coordina un team.
I risultati del sondaggio
Al sondaggio hanno partecipato più di 130 persone ed è da subito apparso chiaro come si sono orientati su uno stile di leadership che pone al centro le persone.

Infatti il 50% dei rispondenti ha indicato come vorrebbe essere un leader in grado di ispirare il team e il 45% come un leader che è in grado di favorire la crescita dei suoi collaboratori. Solo il 3% ha invece espresso una preferenza per un leader focalizzato sul raggiungimento degli obiettivi, a conferma della centralità della persona come nuovo, forte valore all’interno dei contesti aziendali.
Questo è solo un esempio di come le modalità di gestione di un team possono variare in base agli aspetti a cui diamo maggiore importanza. Sulla base dell’approccio che ogni coordinatore ha con il suo team, si possono distinguere diversi stili di leadership, ovvero differenti modi per intendere e ricoprire il ruolo di leader.
Questo stile può variare anche molto in base alle caratteristiche personali del leader e dei collaboratori, ma anche in base alle situazioni aziendali, elementi di contesto, dinamiche interne al team, ecc.
Basandosi su queste differenze, lo psicologo, scrittore e giornalista statunitense Daniel Goleman ha individuato ben sei stili di leadership (Primal Leadership, 2002). Andiamo a scoprirli insieme.
I sei stili di leadership secondo Goleman
Stile Visionario

Impossibile non ricordare la celebre frase di Martin Luther King: “I have a dream”.
Ecco, proprio questo “sogno” e soprattutto la capacità di condividerlo agli altri sono gli elementi fondamentali che caratterizzano lo stile di leadership visionario.
Il leader Visionario tende infatti ad adottare una linea direttiva che mira a condividere la vision e la mission aziendali e che ingaggia il team verso gli obiettivi da raggiungere; in questo modo è in grado di creare una sorta di “sogno condiviso“, che sprona i collaboratori a prendere a cuore il destino dell’azienda e che, soprattutto in delicati momenti di cambiamento, riesce a dare al team una direzione chiara su cui orientarsi.
Stile Democratico

Come in ogni democrazia, anche in questo stile di leadership la regola principale è il coinvolgimento nelle decisioni. Infatti un leader democratico tende a  valorizzare tutti i collaboratori, ascoltarne le opinioni e coinvolgerli nelle scelte.
Il risultato è la creazione di un ambiente partecipativo, che valorizza i singoli e porta alla responsabilizzazione di ogni persona.
Stile Coach

Come il precedente, anche il leader coach si focalizza molto sulle persone, ma questa volta più in termini di crescita professionale. Il suo obiettivo è infatti quello di creare una connessione tra la mission dell’azienda e i desideri/bisogni del lavoratore.
Questo tipo di leadership è in grado di far emergere le potenzialità dei membri del team, motivandoli e sostenendoli nello sviluppo di competenze a lungo termine.
Stile Esigente

Per un leader esigente, la parola chiave è “obiettivo“. In genere, questo leader è determinato e molto focalizzato sul raggiungimento di obiettivi e risultati. Tende a porre i suoi collaboratori di fronte a sfide stimolanti e richiede loro il meglio, in termini di qualità del lavoro e rapidità.
Dimostra un forte spirito d’iniziativa, sprona al massimo il gruppo nel raggiungimento dei risultati e si mette in gioco in prima persona per il fine superiore di arrivare all’obiettivo.
Stile Armonizzatore/Affiliatore

Se si vuole creare armonia in un gruppo di lavoro, certamente lo stile armonizzatore/affiliatore è quello da preferire. Infatti, questo tipo di leader tende a gestire le tensioni all’interno del team, costruisce legami solidi e, specialmente durante i periodi di stress, previene i conflitti interni.
Questo permette di mantenere adeguati livelli di performance anche in periodi di stress o crisi – quando invece normalmente si abbasserebbero –  e porta i collaboratori a creare legami, ad ispirarsi e incoraggiarsi a vicenda.
Stile Autoritario

L’ultimo stile di leadership risulta il più direttivo nei confronti del team: il leader autoritario infatti tende ad imporre la propria vision, ad accentrare le decisioni su di sè, ad esigere il rispetto di regole e procedure e a non accettare i fallimenti.
Se ad una prima vista può apparire come uno stile “negativo”, in realtà un leader autoritario è particolarmente efficiente nei casi di emergenza o in settori più pericolosi, nei quali qualsiasi errore può avere conseguenze serie, perchè permette di ridurre al minimo gli errori.
Ad ogni contesto, il suo stile
Come avete visto, ogni stile di leadership presenta i suoi pro e anche i suoi contro e risulta particolarmente efficace in alcune situazioni e contesti, ma potrebbe essere inefficace o addirittura controproducente in altri.
Occorre sempre ricordare che non esiste uno stile di leadership “per tutte le stagioni”.
Anche se all’apparenza alcuni stili possono sembrare preferibili rispetto ad altri, in realtà ogni stile risponde a particolari esigenze dell’azienda e delle persone e va saputo dosare in base alle situazioni, al contesto aziendale, agli obiettivi da raggiungere e al tipo di persone che ci troviamo a coordinare.
È proprio questa la chiave per essere un leader efficace: sapersi muovere con disinvoltura attraverso gli stili di leadership e sceglierli in maniera adeguata alle diverse situazioni.
Non è un compito facile: per riuscire a farlo, occorre lavorare sulle capacità di ascolto, imparare a capire il linguaggio non verbale, sviluppare una spiccata intelligenza emotiva e ottime capacità di comunicazione. Solo quindi lavorando sulle proprie competenze il leader potrà adattare il proprio stile, sostenere nel modo corretto il team e guidarlo in maniera efficace verso il raggiungimento di grandi risultati.
 
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Collaborative workload: il “sovraccarico di collaborazione” vissuto dai manager

Il fenomeno definito dagli esperti come “collaborative workload“ è caratteristico di chi occupa posizioni manageriali e che si trova ad affrontare situazioni stressanti, derivanti da continue incombenze lavorative, legate all’attività di supervisione e al coordinamento di altre risorse.
Il dirigente scolastico che si sente lontano da quella che era la sua abituale attività di insegnamento, il chirurgo che non trova più il tempo di operare perché impegnato della gestione del suo team, il responsabile di produzione che non ha più a che fare con l’attività di costruzione di quel prodotto di cui è lo specialista; situazioni frequenti che, a volte, sono fonte di stress e insoddisfazione da parte di chi le vive.
Per comprendere a fondo la questione sorge spontanea una domanda: è chi ricopre il ruolo di ‘supervisore’ a non aver ben compreso quali sono le attività che gli spettano oppure è il concetto stesso di ‘supervisore’ ad essere distorto all’interno della nostra società?
Probabilmente entrambe le affermazioni trovano un fondo di verità.
Claudio Giovanni Cortese, docente di Psicologia del lavoro dell’università di Torino, afferma che in Italia si tende ad affidare ruoli di coordinamento a chi eccelle in un determinato lavoro, dando per scontato che l’abilità gestionale necessaria per la gestione dei team di progetto venga da sé. Inoltre, non si considera il fatto che quel chirurgo che ha passato la sua vita professionale in sala operatoria e poi si ritrova a gestire un team di collaboratori, senza aver tempo di operare in prima persona, potrebbe sentire la mancanza dell’attività precedente.
In altri casi il problema è la persona, che non ha gli strumenti necessari per affrontare in modo adeguato il passaggio da un ruolo operativo ad uno manageriale. È sempre Cortese a proporre tre soluzioni che aiuterebbero alla corretta esecuzione del ruolo di supervisor, vediamole insieme.
Agire su di sè per diventare manager migliori
Il professor Cortese indica tre strategie che permettono di migliorare nella messa in atto del proprio ruolo di manager, soluzioni che vanno prima di tutto ad agire sulle caratteristiche personali del manager, sulle sue aspettative di ruolo e sul suo modo di confrontarsi con il proprio team e che permettono di ridurre il “sovraccarico di collaborazione” che molti manager vivono.

Il primo suggerimento è quello di ridimensionare le aspettative verso il proprio lavoro: salire quello scalino in più e guardare il team dall’alto comporta, necessariamente, una diminuzione delle attività di carattere più operativo, a fronte di un aumento delle attività di gestione e supervisione. Accettarlo è fondamentale.
Il secondo consiglio è volto a promuovere l’attività di delega: distaccarsi da quelle che sono le attività di carattere più operativo e saper identificare la persona giusta a cui affidarle è la strategia adeguata per non essere sommersi da responsabilità che non spettano al proprio ruolo.
Terzo ed ultimo suggerimento è quello di abbandonare l’idea di poter essere multitasking, che spesso conduce ad un sovraccarico di stress e riduzione della produttività. Riuscire invece a concentrarsi in un’attività alla volta fa sì che alla fine della giornata si costruisca un quadro organizzato di quanto si è fatto e quanto si debba fare l’indomani.
Suggerimenti, questi, non sempre di facile applicabilità; nel momento in cui si è sommersi da incombenze di natura diversa, appunto manageriale od operative, non è automatico per chi le vive riuscire da subito a destreggiarsi, ma è importante iniziare a riflettere sull’incidenza di questo fenomeno, sui carichi di lavoro percepiti e sulla necessità di lavorare su se stessi per diventare manager e professionisti migliori e più equilibrati.

Staccare la spina in vacanza: il Diritto alla disconnessione dal lavoro

Ti è mai capitato di ricevere chiamate lavorative durante il tempo libero, mentre sei in vacanza, in compagnia di amici e parenti, o mentre stai coltivando i tuoi hobby? Ti sei mai fatto risucchiare dal vortice del remote working, rendendoti reperibile in qualunque momento della giornata? Oppure, preso dalla preoccupazione per la quantità di e-mail a cui rispondere il lunedì mattina, hai iniziato a controllare la posta elettronica già a partire dalla domenica sera?
Da un paio d’anni in Europa questi ed altri comportamenti, che implicano un’invasione della vita lavorativa nella sfera privata, non sono più ammessi; nel 2021 infatti il Parlamento Europeo ha riconosciuto tutte le conseguenze negative sulla qualità della vita di un lavoratore sempre connesso e con una Risoluzione ad hoc ha invitato gli Stati Membri a riconoscere il Diritto alla disconnessione come fondamentale, chiedendo l’intervento della Commissione Europea per stipulare una direttiva che fornisca “un quadro un quadro legislativo al fine di stabilire i requisiti minimi sul lavoro a distanza in tutta l’Unione, garantendo che il telelavoro non pregiudichi le condizioni di impiego dei telelavoratori”.
L’articolo 2 del Decreto Legge 30/2021 lo dice a chiare lettere:
“I lavoratori hanno «il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati. L’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.
Disconnettersi per vivere (e lavorare) meglio

La Risoluzione del Parlamento Europeo vuole porre dei confini al tempo dedicato al lavoro e tutelare la vita personale e il tempo libero dei collaboratori. A causa della sempre maggiore presenza di tecnologie digitali e di politiche di smart working e remote working, incentivate anche dal periodo pandemico, l’imperativo odierno sembra essere quello di essere connessi e raggiungibili sempre, in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo.
Approfondisci questo tema leggendo “L’imprenditore H24”
Questo, se da un lato può dimostrarsi una valida risorsa per rendere più “agile” il lavoro, rischia tuttavia di rompere il delicato equilibrio tra vita privata e professionale.
L’essere sempre reperibili comporta infatti un’intensificazione del lavoro, con una conseguente contaminazione del tempo libero che dovrebbe invece essere invece dedicato al relax e allo svago, in modo da ricaricare le energie in vista di una nuova settimana lavorativa.
L’assenza o la riduzione di questi momenti ha influenze negative sulla salute psicofisica della persona; l’essere sempre reperibili renderebbe quasi impossibile staccare la spina e distogliere la mente dall’ambito professionale, portando ad un aumento dello stress lavoro-correlato e ad un peggioramento della qualità della vita nel suo complesso.
Tuttavia, si potrebbe ingenuamente pensare che questa pratica porti invece benefici all’azienda, dal momento che vengono svolti compiti lavorativi nonostante non venga percepita alcuna retribuzione straordinaria. Non è così: a causa dell’aumento dello stress lavoro-correlato nei dipendenti, infatti, si assisterebbe ad una tendenza crescente nelle richieste di periodi di ferie o nelle assenze per malattia. Il mancato riposo intellettuale ha conseguenze negative anche sulla produttività della persona; “essere sempre connessi abbassa la qualità del lavoro.” ha infatti commentato il sindacalista Jérôme Chemin, “Non agiamo più, siamo costretti a reagire di continuo”.
Essere sempre presenti è un costo per l’azienda: scopri di più nell’articolo “Il presentismo: un costo aziendale sottovalutato”
Per evitare quindi effetti negativi sul benessere della persona e sul suo rendimento lavorativo, occorre intervenire prontamente con misure organizzative che garantiscono un giusto riposo ai lavoratori grazie al “diritto alla disconnessione”, già normata in alcuni Paesi europei.
Il Diritto alla disconnessione in Europa
Francia
Riguardo a questo tema, la Francia è stata pioniera in Europa, con l’entrata in vigore da gennaio 2017 della legge Loi Travail che, con l’articolo 55, formalizza per la prima volta il “diritto alla disconnessione” dei lavoratori. Ciò comporta l’obbligo, per le aziende con più di 50 dipendenti, di trattare con i sindacati fino a stipulare accordi interni sui tempi e i modi in cui i lavoratori potranno essere “offline”.

La normativa prevede l’istituzione di “fasce di reperibilità” in cui il lavoratore deve essere a disposizione dell’azienda, non solo con la sua presenza nell’ufficio o nello stabilimento, ma con la garanzia di poter essere disponibile e rintracciabile anche per telefono o e-mail.
Al di fuori di queste fasce, però – e qui risiede la vera novità della legge – il lavoratore ha il diritto di non utilizzare apparecchiature tecnologiche per assolvere compiti connessi con l’attività professionale.
In pratica, all’interno di questi momenti di “disconnessione”, che solitamente coincidono con i weekend o i periodi di ferie o riposo, la persona ha la possibilità di spegnere il telefono aziendale, ignorare le chiamate del dirigente o del collega, non rispondere alle e-mail e non visualizzare i messaggi, il tutto senza essere considerato inadempiente sul lavoro, quindi senza conseguenze sulla prosecuzione del rapporto professionale o sulla retribuzione.
Questa legge si è resa necessaria di fronte ai risultati di uno studio del 2015, commissionato dal Ministero del Lavoro, che aveva messo in luce come tre quarti dei manager coinvolti nella ricerca non si “disconnettesse” effettivamente dal lavoro durante il tempo libero, continuando a rispondere alle telefonate lavorative o a consultare le e-mail.
Ancor prima della promulgazione della legge francese, infatti, molte grandi aziende avevano già limitato l’utilizzo delle tecnologie digitali a fini professionali in orari extralavorativi: in Volkswagen, ad esempio, dove vige anche il divieto di inviare e-mail dopo le 18.15, i server vengono spenti mezz’ora dopo la fine dei turni e riaccesi trenta minuti prima dell’inizio. In altre aziende, come Deutsche Telekom, Axa e Areva, multinazionale francese del settore energetico, quando si esce dall’ufficio, non si devono leggere più e-mail.
Belgio
Dallo scorso anno, anche il Belgio si è dotato di una normativa che regolamenta i contatti fuori dall’orario di lavoro, che al momento è attiva per i dipendenti pubblici ma che potrebbe essere estesa anche al settore privato. Dal primo febbraio 2022, i dipendenti pubblici hanno infatti il diritto di non rispondere più a mail, messaggi e telefonate una volta terminato il proprio orario di lavoro, a meno che non ci siano “circostanze eccezionali e impreviste che richiedano un’azione che non può attendere” il rientro.
L’iniziativa, come spiegato dalla Ministra della Pubblica Amministrazione Petra De Sutter, ha l’obiettivo di abbracciare il cambiamento culturale del mondo del lavoro, ma anche di tutelare la salute dei lavoratori e il work-life balance, scongiurando il pericolo di stress e burnout e al contrario aumentando concentrazione ed energie grazie alla giusta dose di riposo.
E in Italia?
Dopo la pionieristica legge francese, anche il nostro Paese si è mosso verso una normalizzazione dei momenti di lavoro e di tempo libero. Il primo cenno normativo alla disconnessione si trova nella legge 81 del 2017, quella che disciplina il lavoro agile, che garantisce questo diritto ma “nel rispetto degli obiettivi concordati”.
Il tema del Diritto alla disconnessione è tornato preponderante nel 2020, con l’esigenza di tutelare i lavoratori da remoto (e non solo).
In quell’anno si è infatti espresso il Garante della Privacy, invocando il Diritto alla Disconnessione senza il quale “si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando così alcune tra le più antiche conquiste raggiunte per il lavoro tradizionale”.
In seguito a questo, il Decreto numero 30 del 13 marzo 2021 (convertito poi in legge) è il primo a parlare esplicitamente di “Diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche” per “tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore”. Il Decreto quindi garantisce ad un lavoratore la possibilità di non rispondere alle email o al telefono e disattivare le notifiche senza “avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.

Il riferimento più recente in Italia è il Protocollo Nazionale sul Lavoro in modalità Agile, firmato il 7 dicembre 2021 da 26 tra organizzazione sindacali e datoriali; anche se lo smart working per definizione non prevede un preciso orario di lavoro, è possibile organizzare fasce orarie e individuarne una di disconnessione. Lo stesso diritto viene esteso anche alle assenze legittime, come malattie, permessi e ferie, durante i quali “il lavoratore può disattivare i propri dispositivi di connessione e, in caso di ricezione di comunicazioni aziendali, non è obbligato a prenderle in carico prima della prevista ripresa dell’attività”.
Se questo argomento ti interessa, leggi anche “La settimana corta: verso una nuova organizzazione del tempo lavorativo”
Riassumendo, è ormai chiaro come leggi e norme a regolamentazione della reperibilità dei lavoratori si stanno rapidamente diffondendo per limitare l’abuso delle tecnologie digitali.
L’ambizione professionale deve essere infatti bilanciata con altri fattori, come la salute, la famiglia, lo sviluppo intellettuale e spirituale e l’ozio; è necessario mantenere una chiara distinzione ed un buon bilanciamento tra lavoro e tempo libero, entrambi aspetti fondamentali per benessere della persona.
Se, da un lato, le aziende devono combattere gli effetti negativi del cyberloafing, ovvero l’utilizzo delle tecnologie disponibili al lavoro per scopi personali, è altrettanto necessario impedire lo sconfinamento della professione in momenti di vita privata per garantire la salute psicofisica dei propri dipendenti.
Dopotutto, si lavora per vivere, ma non si vive per lavorare.
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La settimana corta: verso una nuova organizzazione del tempo lavorativo

Con la Festa della Repubblica che quest’anno è arrivata di venerdì, quella appena trascorsa è stata per molti professionisti una “settimana corta“: e se le settimane lavorative fossero sempre così?
Quello della settimana corta è un tema molto caldo, di cui si sta discutendo molto e che entrerà sempre di più nelle dinamiche del mercato del lavoro. Già adesso iniziano a comparire annunci che per attirare l’attenzione di potenziali candidati scrivono “ti piacerebbe lavorare 4 giorni ed essere pagato per 5?” e in futuro potrebbero aumentare.
Nonostante questo, lavorare meno alle stesse condizioni contrattuali è, almeno per il momento, ancora un’utopia: accorciare la settimana ha inevitabilmente un impatto su un sistema che funziona solo se tutti i pezzi lavorano in armonia, come una macchina ben oliata e recentemente collaudata. Nel contesto italiano, in cui l’approccio al cambiamento a volte può apparire lento, l’idea di stravolgere la routine ormai radicata del lavoro full time 5 giorni su 7 ha dato vita ad un acceso dibattito.Che fare quindi? Ce lo prendiamo questo venerdì off? Vediamo cosa dicono i risultati dei primi esperimenti.
Dai primi esperimenti, emergono i benefici della settimana corta
La nota community Will Media riporta i risultati di un esperimento in Inghilterra, che ha previsto l’implementazione della settimana corta per sei mesi. All’esperimento, condotto dall’Università Cambridge, hanno partecipato 61 aziende che hanno ridotto l’orario di lavoro e lasciato immutato lo stipendio. I partecipanti variano “da rivenditori online a fornitori di servizi finanziari, da studi di animazione fino a un negozio locale di fish and chips, passando per società di consulenza, IT, cura della persona, marketing e assistenza sanitaria”. 
I risultati riportano benefici sia per l’azienda sia per i dipendenti, infatti:

i ricavi dell’azienda sono rimasti invariati;
>il 39% dei lavoratori ha riportato meno stress;
>i giorni di malattia sono diminuiti del 65%;
le dimissioni sono diminuite del 57%;
il 71% dei lavoratori ha riportato sintomi del burnout in calo

In precedenza, anche Microsoft ha sperimentato questa nuova organizzazione. Nel 2019, la nota azienda informatica ha infatti chiuso gli uffici della sua sede di Tokio nei giorni di venerdì, sabato e domenica per un mese, con risultati che confermano quelli del più recente esperimento britannico: rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, infatti, la produttività è aumentata del 39,9%, la durata delle riunioni aziendali è stata ridotta (massimo 30 minuti) e i costi dell’elettricità sono stati ridotti del 23,1%.
Altri articoli sul tema evidenziano inoltre che l’azienda potrebbe ricavare vantaggi “indiretti” dalla settimana corta: una riorganizzazione del lavoro in questo senso infatti può potenzialmente aumentare l’attrattività dell’azienda per le nuove generazioni, alla ricerca di un miglior equilibrio casa-lavoro oltre che ad una condizione economica migliorativa.
Approfondisci questo tema leggendo “Flessibilità e miglioramento del work-life balance: questi i segreti dei World’s Best Employers”
I primi risultati quindi sembrano incoraggianti. Secondo Pedro Gomes, insegnante di Economia presso la Birbek (Università di Londra), la settimana lavorativa di 4 giorni è una vera e propria un’innovazione sociale, oltre che un modo migliore di organizzare l’attività economica nel 21esimo secolo.Questa novità avrebbe inoltre il potenziale di sprigionare innovazione e imprenditorialità, in quanto nuove idee e prodotti nascerebbero dalla disponibilità delle cosiddette “leisure hours”, le ore di svago. 
La settimana corta in Italia
In Italia sono ancora pochi gli esperimenti di settimana corta, ma una delle prime aziende a muoversi in questa direzione è stata Intesa San Paolo. La decisione ha fatto molta notizia, anche perchè Intesa San Paolo è una delle società private con più dipendenti in Italia, circa 74mila e il cambio di orario impatterà sicuramente sull’organizzazione interna.
In questo caso però le giornate di lavoro sono sì state ridotte a 4, ma sono aumentate le ore di lavoro giornaliere, che arrivano a 9. Questo stratagemma potrebbe sembrare controintuitivo e contrario all’obiettivo della settimana corta, tuttavia potrebbe rappresentare un primo step che mette d’accordo aziende e collaboratori. La riduzione dell’orario infatti rappresenta un aspetto sicuramente poco apprezzato dalle imprese, in un paese dove c’è una scarsa abitudine a misurare i risultati e la produttività è un elemento critico, perciò una formula come quella applicata da Intesa San Paolo potrebbe aiutare ad avvicinare le aziende ad una nuova modalità organizzativa. 
Tuttavia è ancora presto per delineare i confini del fenomeno in Italia, che sicuramente dovrà trovare il giusto mix per favorire il benessere dei lavoratori e allo stesso tempo per sostenere la produttività delle aziende.
Scopri le testimonianze dirette nell’articolo di Senza Filtro: “Settimana corta lavorativa, parla chi l’ha provata: flessibilità non vuol dire equilibrio”
Il lato oscuro della settimana corta
Ma non è tutto oro quel che luccica. Sebbene infatti la settimana corta abbia presentato molti benefici in termini di produttività e work-life balance, potrebbe portare anche a degli svantaggi, soprattutto nel caso in cui a questa nuova modalità organizzativa non seguano evoluzioni in termini di cultura aziendale e strumenti utilizzati.

Lavorare meno giorni potrebbe portare le persone a sentirsi meno coinvolte nei confronti dell’azienda, andando ad indebolire il legame con l’impresa e aumentando le probabilità di allontanamento. Inoltre, lavorare 4 giorni anzichè 5 significa anche avere meno tempo per portare a termine le proprie attività; in molti casi infatti il carico di lavoro rimane lo stesso ma, avendo a disposizione meno giorni lavorativi, ciò potrebbe risultare stressante per i lavoratori.
Nel caso invece in cui si riduca anche l’orario, di pari passo potrebbe calare anche lo stipendio, elemento che viene percepito come negativo dai lavoratori, con solo un 10% che sarebbe disposto ad accettare una decurtazione dello stipendio in cambio di una settimana lavorativa di 4 giorni (come dimostrato dalla ricerca Global Workforce of The Future di The Adecco Group riportata da IlSole24Ore).
Infine, occorre  la settimana corta potrebbe non essere adatta per tutte le aziende o settori, come ad esempio quelle aziende di produzione che necessitano di orari di lavoro continuativi e che potrebbero trovare difficile ristrutturare le loro attività in una settimana lavorativa più breve.
Adattare il cambiamento al contesto
In questa fase, è ancora difficile trarre conclusioni definitive, anche se dalle evidenze sopra citate sembra chiaro che i benefici di un 4-day work week trial possano ragionevolmente ispirare l’imprenditorialità più all’avanguardia a fare un passo in avanti.
Come muoversi quindi?
Innanzitutto abbandonando la presunzione di poter trovare una soluzione univoca, condivisa e uguale per tutte le aziende e settori.
La settimana corta, come ogni cambiamento radicale nell’organizzazione di un’azienda, può essere implementata come misura migliorativa purché si parta da un’analisi approfondita del contesto di riferimento, delle persone, da cultura dell’azienda e di tutte le variabili coinvolte, che permetta la strutturazione di una proposta adeguata.
Internalizzare il cambiamento è difficile, la diversità complessa. Prendiamocene cura.

6 Consigli per il Lavoro dagli head-hunter di SCR

Ormai da tre anni appuntamento fisso nelle newsletter di SCR, la rubrica sui Consigli per il Lavoro fornisce suggerimenti e spunti ai candidati per orientarsi in un mercato del lavoro sempre più complesso e per mettere in luce i propri punti di forza e le proprie competenze.
Nati dall’esperienza di esperti di ricerca e selezione del personale, questi consigli vogliono aiutare i professionisti a farsi notare da head-hunter e aziende per trovare il lavoro dei loro sogni e a trarre i massimi benefici dalla loro esperienza lavorativa attuale. Una carrellata di semplici suggerimenti che possono fare una grande differenza nella vita professionale di qualcuno.
Se ve li siete persi o volete leggerli di nuovo, niente paura: trovate tutte le puntate della newsletter 2022 in questa raccolta.

 
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7 consigli sul lavoro firmati SCR (da recuperare se li avete persi)
La top 10 dei consigli sul lavoro di SCR
7 Consigli per il lavoro, tra smart working e ripartenza

Il presentismo: un costo aziendale sottovalutato

Tutti gli HR Manager conoscono bene e a volte si sono dovuti confrontare con il problema dell’assenteismo, ovvero la tendenza dei dipendenti ad assentarsi dal luogo di lavoro, per un periodo più o meno prolungato, senza che ci siano cause giustificate. Tuttavia, soprattutto con l’arrivo dei primi freddi, c’è un altro problema in agguato, che spesso viene sottovalutato da manager e aziende: il presentismo.
Il presentismo consiste nel presentarsi sul luogo di lavoro anche quando si è malati; meno evidente dell’assenteismo e per questo molto spesso poco considerato dalle aziende, presenta costi per l’organizzazione simili all’assenteismo, se non maggiori.
Infatti, i dipendenti che lavorano anche quando sono malati presentano livelli più bassi di produttività, non riuscendo a raggiungere le prestazioni che ottengono normalmente. In questo senso, implementare una minuziosa strategia per gestire questi comportamenti potrebbe essere una fonte di vantaggio competitivo per l’azienda, recuperando determinati costi che altre organizzazioni concorrenti potrebbero ignorare.
Altro fattore non meno importante, anche i dipendenti potrebbero risentire di conseguenze negative dovute all’essersi presentati al lavoro durante la malattia. Prima di tutto, le loro condizioni di salute, se non gestite adeguatamente, potrebbero aggravarsi portando ad indisposizioni e convalescenze molto più prolungate; in seconda battuta, il dipendente malato potrebbe trasmettere ad altri colleghi la malattia, causando perciò l’assenza di più persone contemporaneamente.

Johns in un interessante studio ha analizzato i costi del presentismo riscontrando che, in numerosi casi, i costi derivati da esso superavano i costi dell’assenza di tali dipendenti. Una possibile spiegazione di ciò è che il presentismo è molto più frequente dell’assenteismo, ma spesso viene ignorato, dato che è più facilmente trascurabile.
Scopri altri costi nascosti per le aziende leggendo “La mala-selectiòn”
Aziende che favoriscono il presentismo
Le caratteristiche dell’organizzazione aziendale, del lavoro e la cultura dominante in azienda hanno una forte influenza sui livelli di presentismo. Secondo lo studio di Johns, la probabilità di avere alti livelli di presentismo è maggiore nelle realtà in cui il rapporto di fiducia e lealtà instaurato con il cliente è un fattore fondamentale. Questo accade anche in lavori in cui i clienti sono considerati vulnerabili e bisognosi di assistenza come nel settore sanitario o in ambito scolastico.
Tassi più elevati di presentismo si riscontrano anche in aziende o dipartimenti in cui è importante il lavoro di squadra, perché i membri di un team percepiscono che stare a casa da lavoro, nonostante la causa sia la malattia, è ingiusto nei confronti dei propri colleghi (sebbene i membri stessi del team riconoscano che questo comportamento può portare a conseguenze peggiori a livello personale e aziendale).

   
Tuttavia, anche in aziende più individualiste possono esserci alti tassi di presentismo: questo accade quando le persone non vengono sostituite nelle loro attività lavorative a causa della necessità di specializzazione elevata, mancanza di formazione trasversale per ricoprire altre mansioni o carenza di personale. In questo caso, se i dipendenti percepiscono che il lavoro si sta accumulando e che dovranno gestirlo al loro rientro, sono più propensi a lavorare anche se malati per evitare un carico di lavoro eccessivo.
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Un altro fattore che incentiva il presentismo è la presenza in azienda di una cultura del “presentismo competitivo“: riscontrata in realtà anglosassoni, questa cultura favorisce la presenza di manager di sesso maschile, incentiva alti livelli di competitività e spinge a rimanere al lavoro fuori orario, recuperare le ore anche dopo trasferte lavorative e ad essere produttivi anche se non in salute.
Riconoscere e gestire il presentismo
Per far fronte al presentismo si possono adottare diverse strategie. Quella più immediata consiste nello svolgere monitoraggio e formazione riguardante questo problema.
Le azioni adeguate da intraprendere per arginare tale fenomeno dipendono ampiamente dalla natura del lavoro specifico che il dipendente svolge, ovvero dipendono da quanto facilmente le mansioni svolte dal dipendente possono essere messe in atto da altri colleghi, o quanto le prestazioni di lavoro in quella mansione siano fortemente collegate a questioni di salute (ad esempio, il dolore alla schiena ha una grande influenza su lavoratori che svolgono movimentazione manuale di carichi).
In conclusione, se da un lato sarebbe comunque sbagliato spingere gli HR Manager ad incoraggiare l’assenteismo, il quale porta comunque costi all’azienda simili a quelli del presentismo, si vuole tuttavia sensibilizzare le aziende verso questo tema ed incoraggiarle a monitorare il presentismo oltre che l’assenteismo. Solo così potranno prendere le contromisure necessarie e predisporre interventi ad hoc nel caso i tassi di questo comportamento raggiungessero livelli elevati.

Employee Engagement: il supporto delle tecnologie digitali

Si parla spesso di Employer Branding, ovvero della reputazione di un’azienda in quanto datore di lavoro, elemento da curare con attenzione per riuscire ad attrarre ed inserire i migliori talenti nel mondo del lavoro. Grazie all’Employer Branding, si mettono in luce gli aspetti positivi del diventare parte del team aziendale, le opportunità di crescita, il benessere nell’organizzazione: si crea, insomma, nell’immaginario dei potenziali talenti una rappresentazione il più possibile positiva e interessante della nostra realtà.
E una volta inseriti?
La sfida non finisce qui, anzi, è appena cominciata. Questo perchè dopo aver inserito un nuovo collaboratore, bisogna il più possibile cercare di mantenere quella promessa iniziale e confermare l’immagine positiva creata in precedenza, con stimoli, opportunità e più in generale coinvolgendolo nella vita e nei progetti dell’azienda. È proprio qui che entra in gioco l’Employee Engagement.
Cos’è l’Employee Engagement e perchè è così importante
L’Employee Engagement, inteso come coinvolgimento dei dipendenti nel raggiungimento degli obbiettivi organizzativi, è un argomento che si sta diffondendo sempre più all’interno delle realtà aziendali; oggigiorno, sempre più spesso la funzione HR sviluppa strategie volte a preservare o promuovere tale fattore nelle proprie risorse umane.
L’Employee Engagement è diventato un fattore molto importante perchè fa sì che gli obiettivi aziendali diventino prioritari e significativi per il dipendente, il quale sentendosi partecipe sia emotivamente che intellettualmente, mette volontariamente la sua energia al servizio del gruppo di cui si sente parte.
Un dipendente può essere infatti definito “engaged” nel momento in cui si sente attivamente coinvolto nella realtà in cui si trova, gli obiettivi aziendali saranno quindi da lui percepiti come individuali; i dipendenti che non si percepiscono come partecipi al raggiungimento di quegli obiettivi proposti dall’azienda sono invece definiti  “not-egaged”. “Dis-engaged” sono, invece, quei lavoratori che mostrano comportamenti controproducenti causati dalla totale mancanza di coinvolgimento. Queste due ultime situazioni potrebbero dar luogo a problematiche che a lungo termine possono andare ad incidere negativamente sulla realtà aziendale.
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Al contrario, è stato dimostrato che la presenza di livelli elevati di engagement contribuiscono all’aumento della produttività (20%), della profittabilità (21%) e della fidelizzazione dei clienti (10%), indicatori che sono fondamentali per favorire i risultati globali dell’azienda.

È, tuttavia, necessario considerare alcuni cambiamenti che caratterizzano la realtà lavorativa odierna e che inevitabilmente influenzano le strategie di promozione dell’engagement. Mentre le carriere del passato erano caratterizzate da un percorso di crescita lineare e di tipo verticale, attualmente la mancanza di questa linearità ha condotto la popolazione dei Millennials– generazione di persone nate tra 1980 e il 2000 – a ricercare soddisfazioni più a breve termine e quindi maggiormente legate ai contenuti del lavoro piuttosto che ad una prospettiva di progressione di carriera.
Approfondisci questo tema leggendo “Attaccamento al lavoro e valori: generazioni a confronto”
Le aziende di conseguenza sono sempre più portate a sviluppare politiche di retention e di promozione dell’engagement che tengano conto di questo cambiamento di prospettiva; secondo una ricerca dell’Oracle Simply Talent, gli indicatori su cui si dovrebbe intervenire per perseguire tali politiche sono i seguenti:

Riconoscimento dei risultati: inteso come collegamento fra incentivi e obiettivi raggiunti finalizzato all’aumento della motivazione del lavoratore;
Supporto nell’individuazione del proprio contributo individuale all’azienda: una chiara consapevolezza delle proprie capacità e competenze aiuta il lavoratore ad identificare quegli aspetti sui quali poter agire in prima persona per promuovere il bene dell’azienda e quelli per cui, invece, il contributo è dato da altri;
Partecipazione a progetti interessanti e stimolanti: la modalità in cui viene strutturato il lavoro incide significativamente sul coinvolgimento dello stesso lavoratore.

Il supporto delle tecnologie digitali

Dal punto di vista pratico, gli esperti affermano che le tecnologie digitali possono rivelarsi un importante facilitatore per la promozione degli aspetti sopracitati. In ottica di promozione dell’engagement, tali strumenti vanno infatti ad agire su tre aree principali:

Comunicazione: le piattaforme digitali hanno un’importante funzionalità social, andando ad aumentare il senso di comunità e appartenenza tra i lavoratori.
Gestione della forza lavoro: le tecnologie digitali permettono l’ottimizzazione dell’orario di lavoro in base alla esigenze del singolo e, di conseguenza, al miglioramento del work-life balance dei lavoratori.
Individuazione di eventuali aree di miglioramento: le piattaforme integrate rendono più accessibile lo scambio di informazioni tra i dipendenti, aiutando anche il datore di lavoro nell’identificazione di eventuali lacune relative all’ambito lavorativo le quali, essendo state individuate, potrebbero essere più facilmente colmate.

I mezzi tecnologici si configurano quindi come un valido strumento per adattare le politiche aziendali alle nuove prospettive dei lavoratori, attraverso la promozione di strategie mirate al coinvolgerli maggiormente nel raggiungimento degli obbiettivi organizzativi.

La sanità al femminile si scontra con il soffitto di cristallo

Spesso su questi canali abbiamo parlato di lavoro femminile e gender gap, uno dei grandi “mali” della società del nuovo millennio. Secondo il Gender Equality Index, infatti, l’Italia si colloca al 15° posto tra gli Stati membri dell’Unione Europea per uguaglianza di genere, ma ottiene il punteggio più basso rispetto all’indicatore “lavoro” posizionandosi all’ultimo posto.
Tale disparità è trasversale a vari ambiti di vita quotidiana e a differenti settori professionali; se guardiamo il mondo del lavoro, è evidente come esista ancora una netta segregazione professionale, che esclude la maggior parte delle lavoratrici dalle discipline STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) e dalla partecipazione al mondo scientifico. Questo vale anche per quanto riguarda l’ambito sanitario, di cui stiamo avendo un’esperienza diretta grazie alla divisione MediCare, nata in collaborazione con DoctorsWork! e specializzata nella selezione di personale medico. Nonostante un maggiore accesso delle donne al settore medico/sanitario, in questo ambito è ancora presente, con forti differenze di genere a livello gerarchico.
Scopri di più su MediCare, la divisione di SCR specializzata nella selezione di professionisti sanitari
La sanità è sempre più “rosa”, ma solo a certi livelli

Secondo i dati della FNOMCEO (La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri), le donne medico sono sempre più numerose sia all’interno delle corsie ospedaliere, sia all’interno delle aule universitarie. Le donne in Italia costituiscono infatti il 56% delle iscrizioni alla Facoltà di Medicina, si laureano con ottimi voti (punteggio medio 107/110) e rapidamente (26,5 anni l’età media alla laurea) e nella fascia d’età 25-40 anni hanno superato gli uomini per iscrizioni agli albi professionali. Ciò si conferma anche nella prevalenza della popolazione femminile nei lavori in ambito sanitario: le donne infatti rappresentano il 70% dei professionisti impegnati nel settore sanitario e sociale.
A leggere questi dati, è chiaro come ci sia un netto miglioramento in termini di rappresentanza dei generi in ambito medico e sanitario. Andando ad approfondire, scopriamo tuttavia che, nonostante la medicina si tinga sempre più di rosa, continua ad essere forte la disparità di genere tra i professionisti sanitari in termini di opportunità di carriera.
È l’effetto del “soffitto di cristallo”, “quella sottile, trasparente ma robustissima pellicola che divide le donne dai posti che contano, li possono sfiorare ma mai afferrare” (Cirese, 2010).
Questo risulta in una maggiore concentrazione di uomini in ruoli apicali e di comando, caratterizzati da maggiori responsabilità, prestigio e da migliori retribuzioni, a scapito del genere femminile, che rimane limitato a posizioni di carattere più operativo e di livello gerarchico inferiore.
Approfondisci questo tema leggendo “Donne in carriera, diritto alla giusta paga e ambizione: ecco le streghe del nuovo millennio”
Univadis Medscape Italia, il portale di informazione per i professionisti della salute, ha condotto una ricerca con il fine di indagare questo fenomeno, evidenziando che, in percentuale, solo il 33% del campione femminile partecipante alla ricerca ricopriva un ruolo apicale, contro il 50% del campione maschile. Ciò è confermato da molti altri dati, come ad esempio quelli riportato dai Conto Annuale Igop – Ragioneria Generale dello Stato del 2019, che evidenziano come le donne costituiscano la stragrande maggioranza del personale infermieristico (78%), mentre solo il 48% dei dirigenti medici con contratto a tempo indeterminato. Queste percentuali calano drasticamente inoltre se si guarda il numero delle dirigenti medico donna che rivestono il ruolo di direttore di struttura (9,1%), contrariamente a quanto rilevato per i dirigenti medici uomini che sono a capo di una struttura semplice o complessa in circa il 21,5% dei casi.

In sintesi, quindi, le donne erogano per lo più l’assistenza, mentre sono gli uomini ad organizzarla e dirigerla, occupando l’80% dei posti di leadership e gestendo, in posizioni dirigenziali, il 69% delle organizzazioni sanitarie (Global Health 50/50, 2020). Come è intuitivo, questa disparità di genere si riscontra non solo nel prestigio e nel livello di responsabilità, ma anche negli aspetti retributivi, con le donne che guadagnano il 30% in meno rispetto ad un loro collega maschio, anche a parità di ruolo.
Gender gap in ambito sanitario: cause culturali e stereotipi di genere
Una volta chiara la situazione attuale, proviamo ora a capire quali sono le (molteplici) cause di questo fenomeno. Una prima spiegazione potrebbe essere ricondotta all’aspetto puramente anagrafico. Secondo quanto emerso dai dati della FNOMCEO, l’incremento di donne nel campo medico è strettamente correlato all’avanzare del periodo storico. Vediamo infatti, che a mano a mano che decresce l’età, aumenta il numero di donne in medicina, arrivando, nelle fasce tra i 30 e i 34 e tra i 35 e 39 anni, quasi a doppiare il numero di colleghi uomini. Progredendo, invece, per fasce di età, il numero di medici di sesso maschile aumenta vertiginosamente. Gli uomini costituiscono quindi la quota maggiore di medici con elevata anzianità lavorativa ed esperienza, elementi che sono spesso centrali nei processi di selezione per le cariche apicali.

Un altro elemento che influisce in maniera consistente è quello legato al bilanciamento tra lavoro e vita privata, un equilibrio che è da sempre difficile per i professionisti sanitari e che è diventato ancora più complesso per le donne a seguito della pandemia, come vedremo prossimamente in un approfondimento su questo tema. Inoltre, le responsabilità di cura della famiglia, che gravano ancora oggi per la maggior parte sulle donne, influiscono negativamente sulla percezione femminile nel mondo del lavoro sanitario: ciò che in realtà è un tentativo di combinare le responsabilità professionali con quelle familiari, trascorrendo più tempo nella cura di famiglia e figli, preferendo contratti di lavoro part-time e avendo percorsi professionali più frammentati, appare ancora oggi come un disinvestimento nella propria carriera.
Oltre a ciò si inseriscono tutta una serie di fattori, come la percezione del ruolo, gli stereotipi di genere, la cornice culturale, le aspettative di ruolo che ancora oggi giocano un ruolo strategico nella manifestazione di questo fenomeno.
Il gender gap viene, inoltre, spesso rimarcato dal comportamento dei pazienti e dei loro familiari che, come emerso dalla ricerca condotta da Univadis Medscape Italia, attribuiscono erroneamente alla donna medico un altro titolo professionale, confondendola con altri professionisti sanitari. Interessante è notare come ciò si verifica anche in senso opposto; spesso, infatti, i pazienti si riferiscono agli infermieri di sesso maschile con l’appellativo “Dottore”. Ogni giorno, all’interno di ospedali, cliniche e studi medici, molti pazienti se hanno di fronte una donna in camice bianco o in divisa, si rivolgono a lei utilizzando l’appellativo “Signorina”, piuttosto che con il proprio titolo lavorativo, cosa che difficilmente accadrebbe nei confronti di un medico di sesso maschile.
È il cartello che a febbraio 2021 è apparso in un laboratorio di vaccinazioni in seguito all’abitudine di molti pazienti di rivolgersi alle dottoresse con l’appellativo “signorina”, chiamando invece gli uomini semplicemente “dottore”.
Ciò che emerge da questi dati è, da un lato un lento ma progressivo miglioramento, con un aumento delle donne che si affacciano alle carriere in ambito sanitario. Tuttavia è chiaro come la strada per l’uguaglianza sia ancora lunga e passi per l’esigenza di ridistribuire in maniera più equa il carico di responsabilità legate alla famiglia e ai figli e di fornire nuovi modelli alle giovani generazioni, di intraprendere programmi di orientamento e di informazione come forma lotta agli stereotipi, volti a ridurre il divario di genere e distruggere quel soffitto di cristallo che ostacola le donne nel raggiungimento di posizioni di leadership.

The Great Resignation: l’esodo volontario dei lavoratori under 40

L’hanno chiamato “Big Quit” o “Great Resignation“, le grandi dimissioni. È il fenomeno, partito dagli USA circa a metà del 2021, per il quale le persone , di fronte alla richiesta delle aziende di tornare a lavorare in ufficio, preferiscono rassegnare le proprie dimissioni.
Le prime realtà che hanno fatto i conti con questo vero e proprio esodo sono state le Big Corporate del Tech. Tim Cook, CEO di Apple ha ricevuto una lettera dai dipendenti per chiedere la modifica del modello che prevede lavoro in ufficio tre giorni a settimana e un approccio più flessibile così da mantenere l’equilibrio famiglia-benessere-lavoro instaurato durante i periodi di lockdown. Il fenomeno si è esteso a macchia d’olio, modificando nel giro di pochi mesi i contorni del mercato del lavoro americano, con circa 20.2 milioni di lavoratori che hanno lasciato il proprio impiego nel periodo compreso tra maggio e settembre, raggiungendo il picco del 3% di dimissioni a settembre 2021.
Ciò che caratterizza questo nuovo fenomeno e che lo differenzia dai precedenti cicli di regressione e ripresa del mercato del lavoro, è la tendenza di molte persone a dare le dimissioni senza una vera e propria alternativa, facendo un salto nel buio e mettendo a rischio la propria stabilità lavorativa pur di migliorare le proprie condizioni di vita.
Questa tendenza è confermata da uno studio di McKinsey, che ha coinvolto quasi 6mila persone in età lavorativa residenti in Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti: se il 40% dei lavoratori è intenzionato a cambiare lavoro nei prossimi 4-6 mesi, il 36% di chi si è già licenziato lo ha fatto senza avere ancora in mano un nuovo lavoro. Sintomo, questo, non solo di una crisi del mondo del lavoro, ma di un vero e proprio cambio di paradigma e di priorità nella vita di molti lavoratori.
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Ma sbaglieremmo se pensassimo che questo fenomeno è limitato alle realtà oltreoceano. Infatti “le grandi dimissioni” sono arrivate anche in Europa e in Italia, investendo il mercato europeo come una valanga e spazzando via i tradizionali modelli organizzativi.
Vediamo cosa sta succedendo nel nostro Paese.
Le Grandi Dimissioni in Italia

Con lo sblocco dei licenziamenti, in tanti prevedevano (temevano?) un’apocalisse nel mondo del lavoro, con un forte aumento dei licenziamenti da parte delle aziende. I licenziamenti ci sono stati, ma la richiesta è arrivata da lavoratori, spesso a tempo indeterminato, che decidono di mettersi in cerca di condizioni migliori. Dai dati pubblicati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali riguardo al secondo trimestre del 2021, c’è stata una crescita tendenziale del 43,7% nelle cessazioni dei rapporti di lavoro, con un particolare incremento tra aprile e giugno 2021 che ha fatto registrare 2 milioni 587mila chiusure dei rapporti lavorativi, con un aumento dell’85% rispetto al 2020. Un numero che arriva a 770mila alla fine di ottobre, secondo le statistiche della Banca d’Italia, 40mila in più del periodo pre-pandemia.
Di queste, 484mila cessazioni sono state causate da dimissioni volontarie dei lavoratori, con un picco di abbandono volontario sul totale di occupati che anche in Italia ha superato il 2%, come non accadeva da anni.
I numeri ci mostrano quindi un quadro ben definito, che sta correndo sulla scia della situazione in USA. Ma per capire le reali cause di questo fenomeno, e permettere alle aziende di “correre ai ripari” per evitare di lasciare andare i loro talenti, occorre scendere più nei dettagli e scoprire chi sono le persone che decidono di licenziarsi dal posto di lavoro e quali sono le motivazioni che li spingono a questo salto.
L’identikit dei “quitters”

Sebbene tutto il mondo del lavoro sia in grande movimento, sono principalmente due categorie di lavoratori a dimostrare più propensione al cambiamento professionale in questo periodo. Monica Tapparello, coach career della società di outplacement Intoo, indica come “quitters“, ovvero con una maggiore propensione a cessare il proprio rapporto di lavoro, uomini di età compresa tra i 40 e i 50 anni, che spesso lavorano in settori che hanno risentito della crisi causata nella pandemia come la filiera automotive ma che si trovano di fronte ad un mercato del lavoro ancora molto rigido.
A farla da padrone come “quitters” sono però i giovani: secondo un’indagine dell’AIDP, l’Associazione Italiana per la Direzione del Personale condotta su 500 imprese italiane, sono aumentate le dimissioni volontarie (70%) di giovani professionisti di età compresa tra i 25 e i 36 anni, residenti in Nord Italia. Il mondo del lavoro sta quindi avendo le conseguenze delle politiche di smart working messe in atto nel 2020, che hanno mostrato che come una maggiore flessibilità è possibile in molti settori e che non influisce negativamente sulla qualità del lavoro – e dell’ingresso a pieno titolo dei Millennials e della Generazione Z nel mondo del lavoro, che hanno valori e priorità molto differenti dai loro predecessori e che sono tra le categorie di lavoratori che maggiormente sono disponibili ad un cambiamento professionale.
Approfondisci questo tema leggendo: “Attaccamento al lavoro e valori: generazioni a confronto”
Lavoratori alla ricerca di un “senso di vita”

Parliamo di valori e priorità perchè proprio questi sono gli elementi che stanno spingendo molte persone a lasciare il lavoro e che li stanno guidando nella ricerca di opportunità alternative.
È l’effetto della Yolo Economy (You Only Live Once – si vive una volta sola), per cui la retribuzione e le condizioni contrattuali non sono più oggi i fattori principali che portano a scegliere un lavoro ma molti lavoratori si muovono, come si legge nell’indagine dell’ADIP, alla ricerca di un “senso di vita”.
Flessibilità, smart working, sostenibilità, sono queste le parole d’ordine che portano le persone a scegliere un altro lavoro nel mondo di oggi. Da uno studio condotto dall’IBM Institute for Business Value (IBV) su 14mila lavoratori in tutto il mondo, è emerso come le motivazioni principali che spingono le persone a cambiare lavoro siano la necessità di avere maggiore flessibilità (32%) e la voglia di avere un incarico più mirato e soddisfacente (27%). Alla domanda su cosa i datori di lavoro dovrebbero offrire per trattenere i propri collaboratori all’interno delle organizzazioni, i lavoratori hanno indicato come priorità un miglior equilibrio tra vita professionale e privata (51%) e opportunità di avanzamento e di carriera (43%).
Leggi anche: “Flessibilità e miglioramento del work-life balance: questi i segreti dei World’s Best Employers”
Ad innescare questa tendenza ha contribuito in maniera rilevante anche l’ampia diffusione dello smart working, modalità di lavoro che prima della pandemia era ancora poco diffusa tra le aziende italiane. Nel 2020 però i lavoratori hanno compreso come lo smart working possa azzerare i tempi degli spostamenti casa-lavoro, migliorare le relazioni familiari e regalare loro più tempo per la cura dei figli o per coltivare passioni e interessi personali; insomma, ha mostrato alle persone che può esistere una nuova modalità di lavoro, lontana dai ritmi frenetici e alienanti di un tempo, a cui i lavoratori oggi non vogliono più rinunciare.

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